lunedì 29 marzo 2010

La nostra vita mentale estesa

Mi sono sempre chiesto, ogni volta  con infinita sorpresa: ma cos’è  questa nostra vita mentale? A che si riferisce? E soprattutto: perché fa così male?
Come forse potrà dire ognuno, le sofferenze dell’anima, anche se, come giustamente già notato da Leopardi, nulla sono in confronto a quelle fisiche, pure scaturiscono, vigliaccamente, anche là dove, fisicamente parlando, non dovrebbero  né potrebbero esserci.
Per fare una prova, immaginiamo quello che potrebbe provare un qualsiasi altro animale, non umano, nei confronti di un evento della sua vita che, pur non cagionandogli nessuna ferita fisica, pure potrebbe essere fonte di dolore, e sicuramente è così per gli umani.
Si immagini allora questo animale, poniamo un predatore, al quale sfugge la sua preda: nel profilarsi una giornata di digiuno egli, oltre a sopportare i brontolii gastrici, è anche sottoposto alle sferzanti pretese della mente? Possiamo vedercelo mentre se ne sta lì, all’ombra d’un Miombo, a recriminare su se stesso, la malasorte, e i santi in colonna?
Forse non è così.
Ma cosa ci dà in più (oltre a tutto quello che, di sicuro, dà in meno) il possesso di questa mente, almeno nella sua forma estesa che possediamo noi umani, così tanto per non discriminare il Regno negandogliela ex auctoritate?
Altre volte da alcuni è stato notato come una maggiore quantità di materia cerebrale non adibita né al moto né alla percezione può efficacemente essere utilizzata per estrarre informazioni dai fenomeni del reale. Seguendo ottusamente fino in fondo questo ragionamento se ne potrebbe concludere che quanti più filtri si interpongono al reale quanto più estesa sarà la nostra percezione, o meglio, lavorazione dello stimolo da lì proveniente. E addirittura possiamo immaginarci un animale, ancora una volta non umano, ma forse superumano, uno cioè con una quantità cerebrale superiore alla nostra (anche se sembra dimostrato che la variazione di massa cerebrale entro certi limiti non produce un aumento di conoscenza) o, per far la cosa meno sporca, con una maggiore propensione all’analisi, a parità di materia: non sarebbe, egli, in grado, per quanto sopra detto, di estrarre in questo modo maggiori informazioni dal mondo?
Che poi il mondo altro non è che il suo mondo, un misto di mondo reale e mondo interiore, un tutto unico, come una miriade osservata con un occhio sfocato.
La risposta che abbozzo io è la seguente (e solita): quanto più ci allontaniamo da un possibile output verso il mondo (chiamatelo motorio, chiamatelo cognitivo, come meglio vi pare) che è una specie di gioco di botta e risposta tra stimoli e atti, tanto più l’organismo si darà da fare per produrre questo output in qualche modo. E uno dei modi è quello di produrre trasmettitori. Se questi non servono, perché in effetti l’output non manca per una loro carenza (anche se molte volte manca per una loro carenza) oppure sono dirottati dove non servono, finiranno per attivare la sensazione dell’urgenza, dell’incompiuto, dell’irrisolto: e queste sensazioni, mancandogli l’output loro proprio, quello che le farebbe felici (e le farebbe anche sparire) ne creano uno loro, e non è mai piacevole.

mercoledì 24 marzo 2010

Fisica e neuroscienze: un approccio newtoniano


(Questo articolo partecipa al Carnevale della Fisica che si tiene a fine marzo nel blog Scientificando di Annarita Ruberto).

Intorno agli inizi del 1670 Isaac Newton si interessò dei fenomeni luminosi, con particolare riguardo ai problemi legati alla rifrazione della luce. Notissimi sono i suoi esperimenti con un prisma trasparente con i quali dimostrò come questo solido geometrico può scomporre la luce bianca visibile in uno spettro di colori. Questo fenomeno viene chiamato dispersione ottica e consiste nella separazione di un’onda elettromagnetica nelle sue componenti spettrali, separando le varie lunghezze d’onda di cui è composta. Si accorse inoltre che facendo nuovamente convergere il fascio di onde disperse su un altro prisma otteneva di nuovo quello originale bianco, mentre se deviava una singola lunghezza d’onda su un altro prisma questa rimaneva invariata, facendogli ipotizzare che fosse un componente primitivo non ulteriormente scomponibile.




Egli pubblicò queste sue prime scoperte in un lavoro per la Royal Society nel 1671, intitolato A Letter of Mr. Isaac Newton, Professor of the Mathematicks in the University of Cambridge; Containing His New Theory about Light and Colors: Sent by the Author to the Publisher from Cambridge, Febr. 6. 1671/72; In Order to be Communicated to the R. Society[1], reperibile a questo indirizzo.
Più tardi, verso il 1679 (anche se già al 1666 datano il presunto aneddoto della mela e alcuni lavori non conclusivi per la mancata considerazione di alcuni aspetti) riprende gli studi sulla gravitazione che, grazie al pressante invito di Edmund Halley, sfociano nel 1684 nel manoscritto De motu corporum che contiene le tre Leggi del moto, che esitano poi, tre anni più tardi, nei Philosophiae Naturalis Principia Mathematica.
Questo trattato si compone di tre Libri, i primi due sono intitolati De motu corporum, e contengono le Tre leggi del moto

  1. “Ogni corpo persevera nel suo stato  di quiete o di moto rettilineo uniforme a meno che non sia costretto a mutare tale stato da forze impresse”.
  2. “Il cambiamento del moto è proporzionale  alla forza impressa e avviene secondo la linea retta nella quale essa viene impressa”, che sarebbe la famosa relazione F=ma dove F è la forza, m la massa e a l’accelerazione.
  3. “A ogni azione si oppone sempre una reazione uguale e contraria: ossia le azioni esercitate da due corpi l’uno sull’altro sono sempre uguali e di direzione opposta”.

mentre il terzo è intitolato De mundi systemate e contiene la Legge di gravitazione universale, che si può esprimere nella formula
                     
                                                                   f=Gm1m2/r2
dove f è la forza di attrazione fra due masse, m1 . m2 è il prodotto delle due masse, r2 è il quadrato della distanza e G è la costante gravitazionale che vale 6,6720 . 10-11Nm2kg-2.
(Fonte: Enciclopedia di Astronomia e Cosmologia, Garzanti 2006)




Newton fu un genio dai molti interessi, che studiò e fece importanti scoperte anche in matematica (tra gli altri, il teorema binominiale e i celebri lavori, con annessa diatriba con Leibniz, sul calcolo infinitesimale), fu teorico ma anche sperimentatore, si interessò di religione e pure di alchimia, insomma il suo animo era costantemente alla ricerca di spiegazioni dei fenomeni naturali e non solo.
Queste considerazioni mi sono utili per l’affinità del lavoro del fisico con quello del neuroscienziato, che si manifesta per esempio in questo recente lavoro di uno studioso giapponese[2] sulla visione del movimento negli esseri umani, di cui parlerò fra poco, e che si manifesta anche in quelle che si chiamano illusioni dovute all’accelerazione, di cui riporto due esempi.
Per esempio, la percezione di una luce in un ambiente buio, varia di posizione alzandosi o abbassandosi dalla posizione reale, se veniamo fatti girare sopra una giostra o una centrifuga, dando le spalle al centro di rotazione. Vi è, in questo caso, una accelerazione centrifuga dei recettori vestibolari che va dalle orecchie verso il naso (indipendentemente se la rotazione è oraria o antioraria)  e che è responsabile della modificata percezione dell’asse gravitazionale soggettivo, il quale porta alla visione spostata della luce.[3]



I recettori vestibolari sono responsabili della stabilità dell’ambiente percepito  dall’individuo. Nella rotazione, al vettore gravitario verticale  si aggiunge quello centrifugo, che è orizzontale: il risultato sarà un vettore inclinato, somma di quello gravitazionale e di quello centrifugo. Essendo al buio, il soggetto non ha modo di utilizzare altri rimandi sensori per stabilire la giusta direzione della verticale e quindi il cervello, piuttosto che ipotizzare una situazione di propria modifica rispetto alla verticalità ipotizza lo spostamento del punto luminoso.
Un’altra illusione è quella conseguente a una rotazione su un supporto inclinato, sempre al buio. Se la rotazione avviene a velocità costante, dopo qualche decina di secondi i canali semicircolari, responsabili della percezione della velocità angolare, smettono di scaricare e rimangono attivi solo gli otoliti, responsabili della percezione della forza gravito-inerziale. Questo vettore gravitazionale però gira insieme alla rotazione e induce la sensazione di un movimento conico.[4]
E ora il lavoro degli studiosi giapponesi pubblicato su NeuroReport.
La rivista New Scientist riporta il lavoro di un gruppo di scienziati dell’Università di Kyoto sul Movimento implicito presente in disegni di figure umane instabili. E proprio su questa instabilità risiede, secondo gli autori, la capacità di questi disegni di attivare la corteccia visiva extrastriata che scarica in presenza di movimento reale.
Allo scopo di comprendere per quale motivo i disegni del pittore giapponese Hokusai Katsushika (1760-1849) avessero una così forte impressione di movimento, gli sperimentatori hanno presentato agli studenti una serie di figure di questo artista e li hanno sottoposti a fMRI per osservare quale aree si attivavano.

                                                                   (Fonte New Scientist)


I disegni erano suddivisi in modo che ve ne fosse una serie a sinistra che illustrava delle figure che implicavano il  movimento, al centro una serie con poco o nessun movimento e a destra una serie di oggetti statici. Naoyuki Osaka e colleghi dell’Università di Kyoto, hanno trovato che solo le immagini di sinistra, quelle con un movimento implicito, attivavano la corteccia visiva extrastriata, un’area attiva quando si osservano movimenti dal vero.
Questo aspetto si trasferiva anche a volti disegnati in pose che implicavano emozioni intense, per il  sottostante coinvolgimento di un movimento implicito, classico legame tra emozione e movimento.

(Fonte New Scientist)



L’area V5 o MT (medio temporale) che fa parte della corteccia visiva extrastriata è l’area che si pensa coinvolta nell’integrazione delle percezioni del movimento. Quest’area presenta connessioni in ingresso con le aree visive V1, V2 e V3,  con il talamo attraverso il NGL (nucleo genicolato laterale) e ancora con il talamo attraverso l’azione del pulvinar coinvolto, come notato altrove, nei processi attentivi. I suoi maggiori collegamenti discendenti sono verso il lobo temporale MST (medial superior temporal), V4, FST (fundus superior temporal)[5] mentre altre proiezioni riguardano i lobi frontale e parietale.



Stante la contemporanea attivazione delle aree V1 e V5 nella rilevazione del movimento, si è dimostrato che l’inattivazione con TMS (transcranial magnetic stimulation)[6] dell’area V5 induce acinetopsia (incapacità di rilevare il movimento) più accentuata rispetto all’inattivazione di V1, dovuto probabilmente alla maggior velocità con la quale il segnale raggiunge l’area V5 (30 ms) rispetto a V1 (60 ms), e inoltre al fatto che il segnale da V1 a V5 è ulteriormente ritardato di 30-50 ms. D’altra parte, è stato rilevato su una paziente con danno bilaterale all’area V5[7]  che vi era comunque una residua capacità di distinzione di alcuni tipi di movimento, quando era orientato in un certo modo, grazie all’azione sussidiaria di alcune aree interconnesse con V5, a dimostrazione di una certa quale plasticità neurale susseguente danno.
Come spiegare la capacità dei disegni di Katsushika di stimolare l’area visiva extrastriata?
Gli autori ipotizzano che vi sia una comune via di processamento degli stimoli visivi relativi al movimento che coinvolgono sia i movimenti reali che quelli presenti, in forma implicita, per esempio nei disegni di questo artista.
Utilizzando lo strumento dell’analogia, rilevo una somiglianza tra l’intuizione newtoniana della complessità del raggio di luce e dunque della possibilità di scomporlo in parti  non ulteriormente frazionabili e la scomponibilità del percetto, visivo in questo caso, da parte del cervello, che permette una sorta di distribuzione a diverse stazioni cerebrali dei vari compiti di elaborazione relativi a ogni ingresso sensoriale, e che vengono raccolti e ricomposti e infine inviati alle strutture motorie e associative per l’output finale.
Per esempio, questo ricercatore[8] ha mostrato che è possibile scomporre il giallo nei suoi costituenti percettivi rosso e verde. E’ stato dimostrato che l’alternanza di luci rosse e verdi sulle stesse aree retiniche induce la percezione del giallo.[9] Siccome il cammino di queste due distinte aree retiniche si integra solo a livello corticale si ipotizza che è dall’unione di queste due singoli canali cromatici centralmente, che scaturisce la visione del giallo.[10]
L’autore dimostra che si può scomporre lo stimolo del giallo nei suoi costituenti. A questo scopo ha creato uno stimolo del giallo sovrapponendo una linea rossa intermittente su una barra verde in movimento. Se osservata per breve tempo la sovrapposizione determina la percezione del giallo, ma se rilevata per un lasso di tempo più lungo la linea sembrerà erroneamente trascinarsi sopra la barra, e apparirà rossa. Questo fatto è interpretabile come un’influenza della percezione del movimento sulla percezione del colore, ovvero come un’integrazione quando rosso e verde si compongono nella percezione del giallo e come un’interferenza quando avviene l’opposto.
Altri due ricercatori[11] hanno dimostrato questo fatto. È possibile inoltre scaricare anche dei video dimostrativi qui (video in ambiente simulato DOS per PC, si possono variare i parametri con le frecce della tastiera).
In questo lavoro si è cercato di confrontare alcune caratteristiche del mondo fisico quali per esempio quelle scoperte da un genio come Isaac Newton e verificare se a livello di meccanismi e di sistemi siano coinvolte o interessate anche nei processi che riguardano il funzionamento del cervello e con questo, ovviamente, quello della mente umana. L’idea è quella che non soltanto all’interno del mondo delle neuroscienze è possibile effettuare scoperte e proporre teorie che spieghino i vari fenomeni osservati studiando il cervello, ma è anche dall’integrazione delle discipline, dall’unificazione del sapere, dal comune intento di ricerca e creatività che possono darsi i risultati più importanti, in linea con quello che era il modo di agire di un altro genio indiscusso, Leonardo.


[1]  Phil. Trans. 1671 6, 3075-3087  doi: 10.1098/rstl.1671. 0072
[2] Osaka, Naoyuki; Matsuyoshi, Daisuke; Ikeda, Takashi; Osaka, Mariko, Implied motion because of instability in Hokusai Manga activates the human motion-sensitive extrastriate visual cortex: an fMRI study of the impact of visual art, NeuroReport, 21, 4, p. 264-267, 2010.
[3] A. Berthoz, Il senso del movimento, McGraw-Hill 1998
[4] R.A.A. Vingerhoets, J.A.M. Van Gisbergen, and W. P. Medendorp, Verticality Perception During Off-Vertical Axis Rotation, J Neurophysiol 97: 3256–3268, 2007.
[5] Boussaoud D, Desimone R, Ungerleider LG., Subcortical connections of visual areas MST and FST in macaques, Vis Neurosci. 1992 Sep-Oct;9(3-4):291-302.
[6] G. Beckers and S. Zeki, The consequences of inactivating areas V1 and V5 on visual motion perception , Brain, Vol. 118, No. 1, 49-60, 1995
[7] S. Shipp, B. M. de Jong, J. Zihl, R. S. J. Frackowiak and S. Zeki, The brain activity related to residual motion vision in a patient with bilateral lesions of V5, Brain, Vol. 117, No. 5, 1023-1038, 1994
[8] Romi Nijhawan, Visual decomposition of colour through motion extrapolation, Nature 386, 66 - 69 (06 March 1997); doi:10.1038/386066a0
[9] ·  Hurvich, L. M. & Jameson, D. The binocular fusion of yellow in relation to color theories. Science 114, 199−202 (1951).
[10] Hecht, S. On the binocular fusion of colors and its relation to theories of color vision. Proc. Natl Acad. Sci. USA 14, 237−241 (1928).
[11] Watanabe, J. & Nishida, S. (2007). Veridical perception of moving colors by trajectory integration of input signals. Journal of Vision, 7(11):3, 1-16,

martedì 23 marzo 2010

Classifica blog italiani

Guardavo, poco fa, la classifica dei blog italiani: in testa c'è Piovono Rane, di Alessandro Gilioli. 
Lo merita.

Una ventata di liberismo russo

Sylvie Coyaud segnala sul suo blog , a proposito della giornata dell'acqua (santa, a questo punto) una ventata riformatrice e ri-sversatrice del governo russo, in perfetta linea anti-ecologista e menefreghista. Leggete qui.

lunedì 22 marzo 2010

Anticipazioni su scomposizione e ricomposizione

Un lavoro che cerco di preparare per il prossimo Carnevale della Fisica , che si tiene dall'amica Annarita di Scientificando, mi fa venire in mente un'analogia tra gli esperimenti di Newton sulla scomposizione della luce bianca visibile, nelle sue componenti a diversa lunghezza d'onda, e la scomposizione che attua il nostro sistema sensoriale sul segnale (inteso come unitario e cercherò di spiegare perchè unitario) che arriva dal mondo esterno o interno. Perchè è questo che noi osserviamo: il sistema nervoso deve separare il segnale, forse allo scopo di gestirlo o di disporlo cronologicamente, un po' come facciamo noi quando scriviamo e leggiamo un libro e abbiamo bisogno della numerazione delle pagine per mantenere il senso e la consequenzialità di quanto prodotto  o letto. Ma una volta separato, direi quasi analizzato, il sistema ha bisogno di ricomporlo in un tutto unico. A questo scopo, l'avrete forse capito, utilizza il sistema motorio: i vari atti permessi dai sistemi sensoriali sono l'individuo e addirittura, anche il sistema motorio può diventare un segnale utile all'espressione motoria. E' da notare che comunque l'output motorio, pur essendo unitario come il segnale originario, si compone di singoli microatti, i vari sistemi guida dei diversi segmenti muscolo-scheletrici, i muscoli agonisti, quelli antagonisti e così via. Dunque il sistema motorio diventa il riferimento per comprendere quello che accade fuori e che entra in noi attraverso i sensi. Le aree sensoriali sulla corteccia non possiedono una memoria, a eccezione della corteccia somatosensoriale che ha un legame univoco con quella motoria per costruire il primo abbozzo di sè. Se qualcuno ci accarezza non fa altro che confermare la nostra seità. 
Stay tuned.

venerdì 19 marzo 2010

La conoscenza estesa


Ho sempre trovato straordinario il fatto che tutta la conoscenza sia potenzialmente presente nel nostro cervello e che occorra soltanto disporla in mappe cerebrali adeguate per averne accesso. Questo potrebbe significare che la conoscenza si costruisce come parole e frasi nel nostro vocabolario, è cioè composta di subunità anche non significanti che messe insieme acquistano significato. A cosa corrisponde la conoscenza del teorema di Pitagora? Un attimo prima non conosciamo quel teorema e un attimo dopo lo conosciamo. Quelle stesse cellule neurali si sono dunque riunite in mappe significanti e ne hanno tratto una proprietà che prima nelle singole cellule non esisteva; quelle mappe neoformate hanno un ruolo, costituiscono la rappresentazione in forma di mappa di un mondo, e hanno due possibilità: o sono percezioni di un mondo simbolico delle idee i cui percetti differiscono da quelli a cui siamo abituati ma che similmente a quelli preparano il terreno all’azione, oppure sono atti veri e propri per cui le aree attivate sono del circuito motorio (in questa seconda ipotesi bisogna individuare i percetti che fanno da guida).
Distinguiamo grossolanamente due modi di conoscere, che fanno capo a due diverse forme di coscienza, quella primaria e quella secondaria, e agli strumenti che usano, e cioè il linguaggio motori-corporeo in un caso e quello simbolico-verbale nell’altro.
Se appare abbastanza intuitivo che la conoscenza motoria del mondo segue regole precise che fanno riferimento al nostro corpo e alla conformazione del mondo fisico, con le sue leggi, è più nebuloso il sistema di conoscenze utilizzato dal sistema simbolico-verbale.
L’ipotesi che faccio, alla stregua dell’homunculus sensoriale di Penfield, con i vari segmenti corporei disegnati in relazione alle afferenze sensorie possedute, è quella della creazione, da parte del linguaggio simbolico-verbale, di un corpo mentale, e addirittura anche dello spazio mentale nel quale questo corpo deve muoversi.




So che l’idea è già stata elaborata, anche se diversamente, da K.R. Popper, si veda qui un breve riassunto (metà pagina).
A me interessa però verificare le vie di contatto tra i due mondi e stabilire in quale modo un mondo mentale ha le carte in regola per “esistere”, di fatto, come il mondo fisico. Il “di fatto” si riferisce ovviamente alla mente umana.
Sembrerebbe che avere il controllo totale sia del mezzo che dell’ambiente ci fornisca gli strumenti per ottenere tutto quello che vogliamo da questo connubio, ma non è così.
Mentre da una parte si può ragionevolmente affermare che ognuno di noi costruisce un suo corpo mentale, diciamo così, a propria immagine, il mondo mentale nel quale questo corpo può muoversi  non è così soggetto all’arbitrio di ciascun soggetto.
Segnatevi questa parola arbitrio, perché tornerà in seguito nella locuzione libero arbitrio.
Questa obbligatorietà costruttiva del mondo mentale è facilmente visibile, per esempio, nella costruzione di teorie scientifiche, rispetto, che so, alla costruzione di teorie letterarie. Il mondo scientifico, forse anche in virtù del forte legame con il mondo fisico, acquisisce un obbligo di coerenza non sempre presente in tutti i campi di attività dell’intelletto umano.
Ma anche nella personale costruzione di un nostro mondo mentale, il mondo fisico interviene a dettare le regole, frantumando spesso le nostre convinzioni. Nei casi dove il legame tra mondo mentale e mondo fisico è più complicato e ricco di collegamenti intermedi, spesso si perde il collegamento con la realtà e si insegue, ognuno, la propria fisima mentale.
(to be continued…)

giovedì 18 marzo 2010

Settimana del cervello 2010



Questa è la settimana del cervello 2010. Direte: un post così lo potevo fare anch'io. Anche dei quadri di Lucio Fontana dicevano: questo potevo farlo anch'io. E però lui  l'ha fatto prima degli altri. [Noterete, in fondo, un nome noto: non l'ho fatto apposta! Giuro!]

mercoledì 17 marzo 2010

Conformazione anatomica della mente



C’è un lavoro su Plos che dimostrerebbe come in un compito di memorizzazione di una sequenza di scene, la presentazione concomitante di un compito di riconoscimento di lettere, con focalizzazione dell’attenzione su questo riconoscimento (con la scena da ricordare in sottofondo) aumenta la capacità di ricordare le scene  rispetto all’assenza di questo compito. Questo purchè il compito di riconoscimento di lettere sia rilevante dal punto di vista comportamentale. La presenza di questo compito, pur sottraendo attenzione alle scene oggetto poi di investigazione al termine del test, finiva con il favorirne la memorizzazione a breve termine. È quello che potremmo definire un rafforzamento simultaneo, laddove il direzionamento dell’attenzione verso un oggetto bersaglio pur distraendo l’attenzione dal vero compito di memorizzazione finisce per conferirgli ugualmente importanza per la contemporaneità dell’evento.
Il discrimine forse è la caratteristica dell’elemento target di fissazione. Un target concentrato attrae maggiore attenzione motoria rispetto a un target diffuso. E la concomitanza dei due eventi fornisce alle scene da ricordare quell’aumento di memorizzazione che la loro natura troppo dispersiva (scene complesse) non consentiva.
Vi è una relazione tra queste caratteristiche di distribuzione dell’attenzione e memorizzazione di eventi e l’interferenza e la complessità rappresentazionale del sé?
Mi chiedo se possa darsi una relazione inversa. Se cioè una situazione di riconoscimento distribuito possa lasciarsi distrarre più facilmente da un evento concentrato come un’interferenza.
E il punto di vista particolare di ogni umano, caratteristica, potremo dire, fisica della sua mente, possiamo considerarlo una specie di bersaglio di fissazione che permette un aumento di memorizzazione a breve termine, ovviamente quando la correlazione  sia rilevante per il comportamento?
Possiamo immaginare il sé come un elemento di fissazione permanente? In fondo noi sappiamo di essere noi stessi quasi ogni minuto della nostra vita da svegli, e ci ricordiamo le scene che viviamo, magari anche quelle che non hanno grandi appigli mnemonici, in virtù del fatto che avvengono simultaneamente alla fissazione dell’attenzione su noi stessi.
E forse è per il motivo opposto che durante il sonno, quando non esiste un compito di fissazione su di sé, la vita percettiva che viviamo attraverso i sogni ha scarsa importanza e il più delle volte non viene ricordata?
Ma c’è dell’altro.
Se è vero che una rappresentazione di sé poco complessa favorisce la mutabilità emotiva, gli alti e i bassi dell’umore, grazie a un’influenza maggiore su di sè degli eventi che si vivono, mentre su soggetti a elevata complessità rappresentazionale ciò non avviene, dobbiamo dedurne che nel primo caso vi è rilevanza comportamentale tra i due compiti (diciamo così) e cioè codificazione mnemonica del sé in contemporanea all’evento bersaglio (un qualsiasi evento della vita) , mentre nel secondo caso questo non si verifica.
Queste caratteristiche potrebbero dirci qualcosa sugli individui, posta la relativa eguaglianza di un evento al quale possono essere assoggettati, e cioè sulla “conformazione anatomica della mente”, insomma il punto di vista mentale, quello che insieme al punto di vista corporeo, pretende di guidare tutto l’organismo.
(to be continued…)

La blogosfera secondo Paopasc


Elenco incompleto e aperiodico di post attinenti, interessanti o sui quali mi è caduto l'occhio (insomma una rubrica nuova come la scoperta dell'acqua calda).

Qui Emanuela Zerbinatti di Arte e Salute parla di uno studio sul ruolo della danza nel comportamento umano e sul suo effetto sui neonati, una sorta di iscrizione a livello del DNA.

Fra un po' ci faranno pagare anche l'aria che respiriamo (si, d'accordo, è un commento leggermente satirico e quindi a doppio effetto, però l'articolo che segue è serio). Ne parla Guido Scorza su Punto Informatico in questo articolo, con riguardo a una nuova tassa sull'utilizzo di diffusori di musica registrata nei locali commerciali. Non fa ridere.

Ancora musica. Su Brain Factor c'è un'intervista a Livio Bressan, su cosa è e cosa fa la musicoterapia.

Aggiornamenti

Se vi interessa c'è un mio articoletto qui, sulla satira.

lunedì 15 marzo 2010

Ecco quello di cui si parla nei blog italiani oggi



...e nella blogosfera



sabato 13 marzo 2010

Interferenza e complessità /2


Il punto di vista.
Quando noi osserviamo un evento lo facciamo dal nostro punto di vista. Questo significa che un certo grado della nostra osservazione dipende da una conformazione osservante che già esiste, che saremmo poi noi stessi.  Nessuno riesce a estendere la gamba sulla coscia oltre i 180°, potremo definire questa ovvietà come un “punto di vista” del nostro corpo motorio?
Se così fosse anche il nostro corpo motorio avrebbe, come dire, dei “pregiudizi”, che altro  non sarebbero che limiti anatomici alla comprensione dello spazio fisico.
Tanto per fare degli esempi, insetti come le formiche riescono a camminare, oltre che ovviamente su un piano orizzontale, anche lungo una parete verticale e a testa in giù da un soffitto, senza subire effetti pregiudizievoli. Questa è una cosa (quasi) impossibile per noi, ma da questo non discende nessuna particolare recriminazione, a meno che non si consideri l’impossibilità di muoversi causata dalla malattia o dalla senescenza.
Questo limite anatomico all’esecuzione di certi atti motori non riguarda per intero la nostra comprensione motoria del mondo, quella definibile come coscienza primaria, perché altrimenti sarebbe impossibile percepire enti al di fuori della nostra portata ma non al di fuori della nostra percezione. E in effetti spesso succede di osservare filmati nei quali qualche umano o qualche animale diventa protagonista di questo errore di presunzione, collezionando una defaillance fisica. La spiegazione che fornisco è che la ricostruzione motoria del mondo non agito (il mondo agito è quello che agisco nel momento, per esempio quando poso il piede a terra mentre cammino, o sollevo le braccia per prendere un oggetto da una credenza, il mondo non agito ma solo ricostruito dal punto di vista motorio è tutto quello che si sottopone ai nostri sensi, che noi comprendiamo senza agirlo, come per esempio il paesaggio in lontananza, o il traffico che si snoda osservato dall’alto di una finestra) ha vincoli meno limitanti rispetto all’azione vera e propria, che deve attivare i meccanismi propri dell’atto motorio che guidano il sistema muscolo-scheletrico. Per questo si può compiere un atto di presunzione motoria ricostruendo un atto potenziale superiore alla nostre capacità. Se ci pensate bene questo meccanismo supponente e presuntuoso è necessario perché la gran parte dei meccanismi di controllo motorio dei nostri movimenti si forma con l’esperienza  e se avessimo un sistema che ci permette di comprendere solo ciò che già sappiamo dovremmo nascere già imparati.
Ora, se riteniamo non impossibile l’esistenza di quello che abbiamo definito punto di vista motorio all’osservazione del mondo, punto di vista che in qualche modo condiziona le nostre percezioni, allora possiamo, usando l’analogia (con parsimonia) accettare anche che esista un punto di vista cognitivo sulle cose (e di fatto noi sappiamo perfettamente che esiste) e che questa sia, in qualche modo, obbligato, così come il suo fratello motorio.
Il concetto che vorrei sviluppare è dunque quello che noi siamo vittime obbligate di un punto di vista nell’osservare gli eventi della nostra vita, sia che utilizziamo la coscienza primaria sia che utilizziamo quella secondaria. In più, se accade che durante l’osservazione di questi eventi noi siamo vittime di una interferenza, nel senso che indicavo nel post precedente, e cioè di uno stress che improvvisamente elimina un nodo della nostra rappresentazione del mondo o del sé, allora il nostro sistema di rete tenderà a convogliare quella quantità definita emotoria (quantità emotivo-motoria disponibile) lungo quei collegamenti che meglio di altri suppliscono allo stress dell’impedimento motorio .

Prima di continuare è forse meglio chiarire quello che intendo per stress dal punto di vista del sistema nervoso. L’ipotesi principale che faccio è che il sistema nervoso sia un meccanismo di direzione e controllo del movimento, che si attua insieme al sistema muscolo-scheletrico. Negli animali (o in quelli che più genericamente potremo definire organismi non vegetali) il movimento sostituisce, a un certo punto, la crescita continua. Invece di crescere verso il luogo dello spazio verso il quale ci si vuole dirigere, l’animale usa il movimento per muoversi verso quel luogo. A questo punto, ogni impedimento all’esecuzione di qualsiasi movimento lo definirei come uno stress. È una definizione approssimativa, ma per il momento sufficiente. Comunque vi invito anche a leggere qui una definizione più classica di stress.
L’impedimento di un atto motorio comporta una liberazione chimica (cortisone e catecolamine) che ha lo scopo di ri-attivare un’interruzione che il sistema nervoso ritiene da ascriversi a una sorta di deficit di neutrasmettitori. È come se dicesse: accidenti ci è impedito il movimento, forse ci sono pochi neurotrasmettitori, inviamone un po’. Questo per quanto riguarda la quantità motoria. Ma esiste anche una qualità motoria, che è lo spazio. Per agire in uno spazio qualsivoglia occorre possedere forme che si spostano in questo spazio. Anche il movimento stesso può essere definito come una serie di forme che occupano spazi diversi in tempi diversi, cioè al tempo t0 noi siamo in un certo posto s0 e in un altro tempo t1 noi siamo in un altro posto s1 e così via. Un po’ come succede con una pellicola cinematografica: un film si compone di fotogrammi statici che osservati a una certa velocità (numero di fotogrammi al secondo) danno l’idea di un movimento continuo.

Per tornare alle considerazioni iniziali, potremmo chiederci: se per il sistema motorio e quindi per la coscienza primaria il punto di vista è il limite anatomico, per la coscienza secondaria e il suo correlato intenzione motoria, da cosa è costituito il punto di vista?
Se è vero che per quanto riguarda il punto di vista motorio, una certa “uniformità” nella macro-composizione della struttura degli umani fa sì che vi sia uniformità anche nella composizione di questo punto di vista, è anche vero che il versante della coscienza secondaria e delle intenzioni motorie oppone meno vincoli macroscopici alla difformità, e  è quindi lecito attendersi una qualche sostanziosa diversità dei punti di vista in ogni singolo umano preso a riferimento.
(to be continued…)

giovedì 11 marzo 2010

Interferenza e complessità /1



I recenti fatti di cronaca politica rafforzano certe mie convinzioni. La realtà può essere rappresentata in maniera diametralmente opposta, con il massimo della buona fede, da due diversi osservatori.
Nella lettura degli eventi della realtà, un qualunque osservatore oltre a percepire gli stimoli provenienti dall’ambiente che i suoi organi di senso riescono a cogliere, e oltre a convertirli in atti motori necessari alla comprensione di quell’ambiente, rileva anche un mondo di intenzioni motorie camuffate dietro una spessa coltre di elementi simbolici dotati di numerosi significati, riconducibili quasi tutti (in my opinion) a atti motori, comunque complessi.
Queste intenzioni motorie camuffate altro non sono che le parole e il mondo seminascosto che vi  prolifera. Si deve alla complessità dei suoi legami con gli atti motori fisici e all’uniformità emotoria necessaria a metterlo in atto la difficoltà di risalire facilmente da un atto intenzionale camuffato a un atto motorio fisico. E è a causa di questa difficoltà che facilmente insorgono incomprensioni sul reale significato (che qui vuol dire atto motorio, cosa fisica, vera, indubitabile) di queste intenzioni motorie camuffate.
In un paio di pezzi precedenti provavo a dimostrare che l’esistenza di una rappresentazione complessa del sé è indice di maggiore resistenza agli effetti confondenti o deprimenti di una situazione stressoria che intacchi una di queste rappresentazioni. L’analogia della complessità rappresentazionale del sé con una rete distribuita serve a comprendere figurativamente come l’interruzione di un nodo qualsiasi (anche un hub, cioè un nodo con tanti collegamenti) non compromette seriamente l’intera rete, come invece potrebbe avvenire con reti centralizzate o decentralizzate.
Si immagini allora la complessità, al di là dei suoi contenuti qualitativi, come una pura e semplice resistenza alla distruzione. In realtà noi possiamo figurarci benissimo due reti, una distribuita con un basso numero di nodi e una decentralizzata con un alto numero, in cui quella distribuita è comunque in grado di resistere meglio alle aggressioni degli stimoli stressanti.
Allo stesso modo si può operare con le convinzioni. Le si può cioè ridurre a uno schema, a una rete, in cui tutti gli elementi siano collegati tra loro così come avviene quando si forma un concetto. In pratica i collegamenti non seguono unicamente la sequenza logica di esposizione del concetto, ma vi sono legami anche tra punti non sequenziali della successione. Per esempio, nel caso richiamato all’inizio, la cronaca politica ci mette sotto il naso l’evento conosciuto di due liste che non fanno in tempo a iscriversi alle elezioni del 28 e 29 marzo.
Come è possibile che esistano, come di fatto accade, due ricostruzioni opposte di un medesimo evento?
Il problema è per me legato alla formazione di idee e concetti quando sia coinvolta una elevata quantità emotoria, che può svilupparsi in seguito a fenomeni che attraggono quantità emotorie depositate (per esempio una produzione catecolaminica, tipica risposta a uno stress) e le rendono disponibili per l’azione. Se l’azione motoria non è possibile queste quantità emotorie che rimangono in circolo e convergono sulla forma che garantisce la massima possibilità intenzionale motoria tra quelle disponibili.
Mi spiego.
Nel momento dello stress acuto conseguente l’esclusione dalle elezioni si cerca la ricostruzione dei fatti per capire quello che è successo. L’esclusione in sé però comporta la produzione di imponenti quantità emotorie (catecolaminica) che dovrebbero preparare all’azione.  Immaginiamo di non voler sapere niente delle arzigogolate spiegazioni del fenomeno ma di guardare solamente alla formazione della rete di queste spiegazioni.
Ecco che allora io penso che se ci trovassimo di fronte a una rete decentralizzata come in fig. 1a l’eliminazione di un nodo comporterebbe una situazione di impossibilità di accedere a alcuni nodi, come si vede in fig. 2a.





Ora, quello che vorrei comprendere la prossima volta è se la complessità rappresentazionale del sé coinvolge anche la rappresentazione degli eventi, se si possono creare interferenze tra le due rappresentazioni o se invece agiscono sempre influenzandosi.
(to be continued…)

mercoledì 10 marzo 2010

Complessità del sé e distribuzione dello stress /2


Un effetto delle affermazioni della Linville, che la complessità rappresentazionale del sé contribuisce a una maggiore capacità di affrontare i cambiamenti, è quello che l’espressione affettiva raggiunge picchi più elevati nei soggetti a bassa complessità, perché quando è coinvolto un singolo aspetto della loro personalità (intesa magari come una superficie circolare) questo rappresenta una porzione considerevole del tutto. Questa constatazione seguiva un suo lavoro del 1985[1] in cui appariva chiaro che i soggetti  a bassa complessità del sé erano più esposti a variazioni del tono dell’umore di soggetti di controllo.
Nel suo lavoro del 1987 l’autrice sottopone a un test di complessità del sé e a una misura degli eventi stressanti, 106 studenti universitari. Ella fornisce ai soggetti dei cartoncini (33) con segnati dei tratti comportamentali o di personalità e chiede di compilare dei raggruppamenti dei propri aspetti rappresentazionali e di descriverli con i cartoncini consegnati. Il punteggio varia con il numero dei gruppi creati (punteggio aumenta) che corrispondono ai diversi aspetti di sé e varia anche con il numero ridondante dei tratti (punteggio diminuisce) usati per descrivere ogni aspetto di sé.
Il risultato rilevante è stato una  relazione tra i soggetti a elevata complessità del sé e elevata quantità di eventi stressanti e quelli a bassa complessità del sé e bassa quantità di eventi stressanti, e cioè un numero limitato di sintomi (di stress).
Altro dato interessante era che i soggetti a elevata complessità del sé e bassi eventi stressanti presentavano comunque più sintomi dei soggetti a bassa complessità e bassi eventi stressanti, caratteristica spiegata con il fatto che l’estremizzazione affettiva dei soggetti a bassa complessità faceva percepire loro, rispetto a tutti gli altri, come più felici situazioni con basso numero di stress. E del resto, per lo stesso motivo, questi soggetti a bassa complessità erano maggiormente aggredibili dalla depressione anche per stress di modesta entità. Dal punto di vista dei più complessi il fatto era invece spiegato con la necessità  di dover mantenere una maggiore tensione per gestire livelli più elevati di complessità rappresentazionale.
Quali considerazioni possiamo trarre da questi lavori?
In linea generale, nel verificare una maggiore immissione emotiva nei soggetti a bassa complessità, possiamo tentare la spiegazione quantitativa data altrove, che implica l’esistenza di una quantità definita emotoria,  genericamente simile in tutti i soggetti e che viene poi distribuita negli aspetti importanti che necessitano  un valore. In parole semplici: se creiamo una rappresentazione di noi stessi composta di pochi elementi, questi si aggiudicheranno una quantità emotoria maggiore rispetto al totale di quanto accadrebbe se la nostra rappresentazione fosse composta di molti elementi.
L’evento stressante si manifesta ogni volta che qualcosa impedisce un’esecuzione. Il freddo è un evento stressante perché ti impedisce di startene fermo lì a sentire freddo e ti costringe a agire, a allontanarti dalla fonte e cercare un riparo. Se un evento ti impedisce di vedere la finale della tua squadra di calcio ecco che anche questo è un evento stressante perché contrasta con una serie di movimenti programmati da eseguire e impediti.
Questo secondo esempio non riguarda solo gli atti motori propriamente detti, quelli fisici conosciuti da ognuno di noi ma anche una loro variante, come dire, solo mentale (di cui peraltro è stata riconosciuta l’efficacia –vedi questo post qui). Sono movimenti mentali che potremmo anche definire emovimenti, movimenti possibili programmati in anticipo per essere eseguiti in futuro, ma che evidentemente hanno rilevanza come quelli veri anche se vengono impediti al solo livello mentale,  perché ugualmente in grado di scatenare risposte stressorie come quelli fisici.
(to be continued…)


[1] P.W. Linville, Self-Complexity and affective extremity: don’t put all your eggs in one cognitive basket, in Social Cognition, 3, p. 94.

martedì 9 marzo 2010

Complessità del sé e distribuzione dello stress /1


Secondo la teoria di Patricia Linville (1987)[1], una maggiore complessità del sé costituisce una garanzia di più elevata capacità di sopportare e gestire gli eventi stressanti. L’ipotesi si basa sull’idea che la rappresentazione di sé da parte di un soggetto, ovvero su come il soggetto si vede, su come vede il suo ruolo nella sua vita, quanto più è complessa e diversificata tanto maggiori sono le possibilità di mantenerne degli aspetti attivi anche in seguito a eventi stressanti che ne compromettano uno o più di uno. Luigi Solano[2] riporta l’esempio di una donna che deve affrontare un divorzio. Se questa donna avesse, per esempio, una rappresentazione di sé come moglie e come avvocato, e se questi due aspetti fossero fortemente legati, in seguito al divorzio con l’andare in crisi della sua rappresentazione di moglie ne verrebbe compromessa anche quella di avvocato, con conseguenze negative sulla rappresentazione generale di sé.
Se invece questa donna avesse una rappresentazione di sé più complessa, ad esempio come moglie, avvocato, giocatrice di tennis e amica di diverse persone, e ognuno di questi aspetti avesse una certa autonomia rispetto agli altri (in pratica ne esistesse di ogni aspetto una rappresentazione indipendente e non vincolata o collegata agli altri, di modo che l’influenza positiva di un’autorappresentazione non ne condizionasse, con il suo carico di autorità, un altro), al venir meno di uno di questi, gli altri continuerebbero a esistere, compensando con un effetto buffer (tampone) il portato delle esperienze negative e stressanti.
Sembrerebbe di osservare, qui, l’effetto tipico di una rete distribuita, nella quale, anche se si elimina un nodo, rimane possibile  il collegamento tra tutti gli altri. La propria personalità come una rete che, a seconda di come è strutturata e di quanto è complessa, resiste ai traumi ambientali lasciando quasi completamente  intatta quella cosa che definiamo rappresentazione di sé.




Ma possiamo anche immaginare questa struttura agente per la coscienza primaria. Possiamo ipotizzare che la rappresentazione di sé di questa coscienza, che spesso è anche l’unica utilizzata da una grande quantità di organismi dotati di sistema nervoso, come l’insieme degli atti possibili, considerando tutti i possibili livelli in cui può accadere che un organismo abbia la ventura di incappare.  Penso, per esempio, al repertorio comportamentale di un qualsiasi animale non umano e a come egli abbia necessità di possedere un esercito di “rappresentazioni di sé” in relazione a tutte le situazioni in cui è obbligato a un atto motorio. Queste rappresentazioni possono ridursi a un numero più manovrabile se le accorpiamo, tanto strettamente da ridurle a un unico aspetto essenziale: possibilità di agire.
Noi possiamo agevolmente immaginare la personalità di un animale come una rete distribuita, in cui vi sia necessità di collegare i nodi che portano gli input a quelli che generano gli output. Come per il caso dell’autorappresentazione di sé degli umani, esiste una rete, la quale contiene al suo interno tutte le risposte possibili agli eventi che possono accadere al nostro soggetto animale. Questa rete la immagineremo distribuita con degli hub, cioè pochi nodi con un elevato numero di collegamenti, e molti altri nodi con pochi collegamenti. Gli hub rappresentano le scelte più utilizzate dall’organismo, i comportamenti ai quali ritorna più frequentemente. Ogni volta che la rete si dispone in uno stato che porta da uno o più ingressi a una o più uscite, l’organismo è. Quello stato è la coscienza primaria all’opera. Per essere però completa questa coscienza primaria ha bisogno di un ritorno sensoriale dei suoi atti, cioè non basta percepire, elaborare, agire, ma occorre anche che questo stato sia riconducibile a una unica entità, qual è un organismo in genere, considerato dal punto di vista, per esempio, dei suoi comportamenti (dico questo perché dal punto di vista della citoarchitettura l’organismo è qualcosa di piuttosto eterogeneo, rispetto alla presunta unicità della consapevolezza di sé).
Ecco che allora ritorna l’idea della complessità del sé: per la coscienza primaria la complessità del sé è un requisito fondamentale, perché concorre al mantenimento della consapevolezza di sé anche quando alcuni nodi della rete vengono meno.
(to be continued…)


[1] P.W.Linville, Self-complexity as a cognitive buffer  against stress-related-illness and depression, in Journal of Personality and Social Psycology, 52, p.663
[2] L. Solano, Tra mente e corpo, Raffaello Cortina Editore 2001.

Ossitocina e immagini di movimenti.

L’adattamento sociale ha bisogno di competenze, cognitive e emozionali. Questo studio recente su PNAS, partendo dalle considerazioni che nell’autismo e nella sindrome di Asperger è conservata (spesso) l’abilità intellettuale e che l’ossitocina, l’ormone del legame madre-neonato, potrebbe essere coinvolta nel deficit sociale degli autistici, dimostra il ruolo di questa molecola nell’aumento della socialità. Il risultato dello studio su 13 pazienti autistici è stato un aumento dell’interazione sociale e del tempo di fissazione degli occhi di figure umane.

Osservazione di un movimento e azione hanno molto in comune. Lo dimostrano, sempre su PNAS, questi autori che hanno registrato i potenziali elettrocorticografici della superficie corticale, durante un’azione e durante una visione. La distribuzione spaziale dei neuroni attivi è praticamente simile nelle due condizioni, cioè nell’agire come nell’osservare. Ruolo della corteccia motoria primaria nel movimento osservato. Inoltre la differenza di ampiezza della stimolazione corticale (a favore inizialmente dell’attività motoria più che dell’osservazione) viene compensata nel tempo dall’utilizzo dell’osservazione come addestramento nel controllo del mouse in un semplice compito.

sabato 6 marzo 2010

Una questione di coscienza

Parto da questa idea. La coscienza secondaria, se non ci fosse quella primaria, non saprebbe distinguere il mondo reale dalla fantasia.
(La distinzione in coscienza primaria e coscienza secondaria segue le categorizzazioni di Edelman 1989[1] e Damasio 1999[2]. Edelman definisce la coscienza primaria come il primo livello di consapevolezza comune a tutti i viventi e instaurato per via evolutiva come adattamento alle necessità dell’individuo; mentre la coscienza secondaria, che egli definisce di ordine superiore, si manifesta solo in certe categorie di animali come i primati e solo nell’uomo, attraverso l’uso del linguaggio simbolico, è capace della auto-consapevolezza nonché della comprensione dell’essere nel tempo.
Damasio invece utilizza i termini coscienza nucleare e coscienza estesa. Varia la terminologia ma non la sostanza. La coscienza nucleare è la variazione dello stato neurale in seguito a un evento che causa l’intensificazione di quell’evento, che così si staglia rispetto al resto. Per quanto riguarda la coscienza estesa, è tutto ciò che è la coscienza nucleare, ma in meglio e più in grande,[3] e anche in questo caso l’intervento della coscienza estesa conferisce valore temporale alla consapevolezza, situando un prima e un dopo negli eventi.)
La difficoltà per la coscienza secondaria starebbe proprio nel suo modo di operare, al di là del dato sensibile, al di sotto della superficie. Mancando i riferimenti fisici, necessari invece alla coscienza primaria, mancano anche i riferimenti degli atti permessi e quelli no, che è quello che normalmente accade al nostro corpo fisico.

Noi umani possiamo avere uno stato di coscienza sia nella condizione di coscienza primaria che in quella secondaria. Abitualmente facciamo convivere le due coscienze, così non ci accorgiamo delle peculiarità tipiche di una o dell’altra. Ma entrambe possono garantire uno stato di coscienza indipendente, con piena consapevolezza. Occorre però puntualizzare che mentre lo stato di coscienza portato dal corpo motorio (coscienza primaria) basa i suoi riferimenti semantici sul mondo fisico circostante e da quel mondo riceve continuamente i feedback necessari al suo mantenimento, lo stato di coscienza secondaria si basa sulla memoria e sulle ricostruzioni motorie e quindi il suo mondo di riferimento è quello mentale, mondo, occorre ripetere, privo di gran parte dei vincoli che contraddistinguono quello fisico, aspetto che implica, tra le altre cose, una difficoltà di stabilizzazione dell’ambiente, nel senso che l’ambiente ricreato dalla memoria associativa soggiace a variabilità locali più che a vincoli fisici esterni all’organismo. Questo comporta, inoltre, la presenza di eventi e fenomeni fisicamente impossibili, nonché la possibilità di rimanere intrecciati all’interno di questo mondo senza poterne uscire.
Quello che cerco di dire insomma è che la coscienza secondaria è si adattativa, ma solo in funzione della coscienza primaria. Se un umano dovesse basare la conduzione della sua vita unicamente sulla coscienza secondaria, vivrebbe come all’interno di un sogno. Anzi, secondo me il sogno è proprio una manifestazione della coscienza secondaria all’opera da sola, senza coscienza primaria, con tutte le caratteristiche che ognuno di noi conosce e può associare allo stato onirico.
Un recente lavoro uscito su PNAS dimostra, con una registrazione simultanea intra-talamica e intra-corticale, che all’inizio del sonno il talamo si disattiva prima della corteccia, mentre al risveglio partecipano entrambe le strutture in maniera sincrona. Gli autori ipotizzano inoltre che questa asincronia nella disattivazione delle due aree possa spiegare le allucinazioni ipnagogiche, dovute alla sola corteccia attiva.
Ora, per poter utilizzare come prova questo lavoro occorre dimostrare che la coscienza secondaria appartenga solamente alla struttura corticale e così pure che la coscienza primaria sia debitrice della propria esistenza all’attività del talamo.


Il Talamo.
Generalmente il cervello viene suddiviso in tre grandi parti: rombencefalo, mesencefalo e prosencefalo. I primi due, cioè rombencefalo e mesencefalo, insieme vanno a costituire il cosiddetto tronco encefalico. Il rombencefalo, a sua volta, si suddivide in metencefalo (di cui fanno parte cervelletto e ponte) e mielencefalo (composto dal bulbo). Il mesencefalo si compone invece del collicolo superiore e di quello inferiore. Il prosencefalo consta dei due emisferi cerebrali, le due parti in cui è diviso l’encefalo. Lo si può ulteriormente suddividere in telencefalo (formato da corteccia cerebrale, ippocampo, bulbo olfattivo, gangli della base e base del prosencefalo) e diencefalo, in cui finalmente appare il nostro talamo e la struttura che gli sta sotto, l’ipotalamo.
Il talamo è una struttura pari (significa che ve ne sono due, uno per emisfero) localizzato all’estremità rostrale (che vuol dire davanti) del tronco encefalico. Il suo nome viene dal greco thàlamos, che significa camera da letto, forse per questa sua caratteristica di essere punto centrale delle afferenze percettive provenienti dagli organi sensoriali (escluse alcune afferenze olfattive) prima di giungere alla aree corticali.
Il talamo riceve proiezioni ascendenti serotoninergiche dai nuclei del rafe, noradrenergiche dal locus ceruleus e colinergiche dal sistema reticolare attivatore. Inoltre invia i propri segnali ai neuroni piramidali della corteccia. È una struttura che distribuisce sonno e veglia: la sua stimolazione nel gatto sveglio induce il sonno mentre la sua stimolazione nel gatto addormentato induce la veglia (vedi più sotto per la spiegazione dell’effetto inibitorio che hanno sul talamo le strutture dei nuclei della base).
Caratteristica importante dei neuroni del talamo è che possono trovarsi in due stati stabili: in oscillazione, che corrisponde allo stato di sonno, e in attivazione tonica, corrispondente allo stato di veglia.
Nello stato di scarica oscillatorio i neuroni talamici sono sincronizzati a bassa frequenza con quelli corticali. Questa sincronizzazione disabilita le funzioni corticali scollegando di fatto quest’ultima struttura dal mondo esterno e instaurando il sonno. Ora, questo lavoro recente dimostrerebbe che vi è un certo lasso di tempo tra la disattivazione del talamo e quella corticale, il che consente alla corteccia di continuare a produrre uno stato di coscienza non legato al mondo esterno.
Nello stato di scarica tonica invece i neuroni del talamo trasmettono alla corteccia gli stimoli provenienti dalle aree sensoriali, il che secondo me significa integrazione dei due diversi stati di coscienza.
Il nucleo ventrale anteriore (VA) e il nucleo ventrale laterale (VL) del talamo sono anche le stazioni di collegamento dei nuclei della base con la corteccia motoria, chiudendo il circuito che inizia in varie aree corticali e che termina nell’area motoria passando attraverso i nuclei della base e appunto il talamo. L’azione dei gangli della base sul talamo, principalmente quelli provenienti dal segmento interno del globo pallido, è inibitoria. In assenza di movimenti del corpo il globo pallido, non ricevendo stimolazioni inibitorie, è libero di bloccare l’attività talamica impedendo così ai segnali di giungere alla corteccia. Quando invece i neuroni del globo pallido ricevono afferenze inibitorie liberano i neuroni del talamo dal loro effetto inibitorio (grazie anche alla notevole attività spontanea del globo pallido e della substantia nigra).
Altre parti importanti del talamo sono il nucleo genicolato laterale coinvolto nella percezione visiva, il complesso ventrale posteriore in quella somatosensoriale e il nucleo genicolato mediale in quella acustica. Un’altra struttura fondamentale del talamo è il pulvinar che, grazie ai suoi fitti collegamenti con la corteccia visiva e con la corteccia parietale posteriore, ha un ruolo essenziale nei processi attentivi. Infine, vi è una notevole connessione discendente cortico-talamica che esita in una rete neuronale che circonda i nuclei talamici, detta nucleo reticolare del talamo, e che probabilmente agisce come modulazione fine della corteccia  sui segnali talamo-corticali.



[1] M.E. Edelman, Il presente ricordato. Una teoria biologica della coscienza, Rizzoli 1991
[2] A.R. Damasio, Emozione e Coscienza, Adelphi 2000.
[3] Op. cit. p. 238.

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