domenica 12 giugno 2011

Dieci miti sul cervello

Questa è una classifica dei 10 miti sul cervello, ovvero 10 convinzioni della vulgata dure a morire su questo straordinario organo. L'ha preparata Laura Helmuth dello Smithsonian. Ve ne offro un riassunto (in corsivo considerazioni mie). Ecco i primi 5 (a breve gli altri 5):

1. Noi usiamo solo il 10% del nostro cervello. Il fatto di fornire una cifra precisa, che poi viene ripetuta di bocca in bocca, e soprattutto il fatto che questo 10% implica un 90% di potenziale mentale che noi potremmo usare, queste due cose insieme rendono conto della popolarità di questa falsa convinzione. Una delle risposte più ovvie a chi afferma che usiamo solo il 10% è che ogni centimetro cubo del nostro corpo ha un costo e che sarebbe un perfetto contro senso se la natura si prodigasse per farci avere un 90% in più di materia cerebrale che non utilizziamo. Invece quello che mostrano le scansioni come PET e fMRI è che noi usiamo gran parte del cervello anche per compiti semplici, in più, i traumi cerebrali che coinvolgano anche piccole aree sono in grado di causare gravi danni al soggetto. E' vero che gli studi autoptici mostrano che molti individui presentano aree deteriorate a causa della malattia di Alzheimer, che però in vita non avevano evidenziato appieno questa loro menomazione. Questo conferma che abbiamo una buona capacità di compensazione e che alcune parti si possono perdere senza mostrarne segno. A questo proposito mi viene in mente il ragazzo che aveva solo mezzo cervello. A causa di questa sua menomazione aveva chiaramente qualche problema fisico di coordinazione ma le sue qualità mentali erano conservate. In più, il fatto che nei test di IQ si raggiungano risultati migliori se vi è una forte motivazione implica la possibilità di miglioramento. Questo comporta che sono possibili margini di miglioramento rispetto alla norma.  Qualche considerazione personale: la sensazione è che noi usiamo sempre il massimo del nostro cervello a seconda della situazione, sia ambientale che personale. E' soltanto la suddivisione in circuiti a creare altre conoscenze del mondo. Probabilmente un minor numero di conoscenze (e quindi di circuiti) implica una maggiore ridondanza di circuiti per conoscenza, e questo fatto potrebbe spiegare la difficoltà a sradicare convinzioni erronee.
2. I ricordi fotografici sono precisi, dettagliati e persistenti. Ognuno di noi ha ricordi vividi e ben impressi nella memoria, che può richiamare in qualsiasi momento e dei quali ha la certezza che corrispondano al vero. Così, per esempio, quasi tutti ricordano cosa facevano o con chi stavano in occasione di eventi molto importanti come l'attentato del 11 settembre, oppure di altri ai quali si è assistito personalmente. Affermiamo, con convinzione, che questi ricordi fotografici permangono inalterati nel tempo e che noi ricordiamo esattamente come si svolsero i fatti e che potremmo descriverli perfettamente.  Ma non è così. Sono soggetti allo stesso decadimento di tutti gli altri ricordi. Alcuni esperimenti lo hanno dimostrato: in concomitanza di fatti tragici e dopo molti mesi, sono stati interrogati dei soggetti testimoni degli eventi, riuscendo a dimostrare che il ricordo si degrada con il tempo. Ma allora da cosa dipende questa sensazione di ricordare perfettamente? Secondo me dipende dal fatto che il ricordo emotivo, meno fine e preciso di altri tipi di ricordi, è però assai resistente al degrado. Può quindi accadere che noi ricordiamo un certo evento dal punto di vista emotivo, fatti tragici oppure intensamente piacevoli, e intorno a questi, proprio come facciamo in sogno, noi ricostruiamo (senza accorgercene) un mondo plausibile.  Questo mondo plausibile è basato sulle nostre esperienze, fa parte della nostra conoscenza delle cose, delle relazioni tra le persone, del posto che occupiamo nella società, nella nostra famiglia, al lavoro e così via. Quando nel ricordo emotivo, forte ma impreciso (dal punto di vista descrittivo), manca qualche elemento, noi lo riempiamo contestualizzandolo, un po' come accade con il  famoso punto cieco dei nostri occhi.
    3. Dopo i 40 (o i 50, i 60 o i 70) anni comincia il declino. Sarebbe pur bello che tutte le nostre caratteristiche rimanessero inalterate con il procedere dell'età, ma la natura ha voluto diversamente. Però è anche vero che le caratteristiche fisiche e quelle mentali declinano diversamente. Le lingue, manco a dirlo, si imparano meglio da bambini in più, in alcuni specifici test di prontezza, i giovani ottengono punteggi migliori dei soggetti più anziani, infatti, per esempio, giudicano più velocemente se due oggetti sono uguali o differenti, oppure memorizzano più facilmente una lista di parole casuali, oppure ancora nel contano più velocemente all'indietro. Però molte altre abilità cognitive migliorano con gli anni. Per esempio, l'ampiezza del vocabolario personale, riuscire a comprendere meglio il carattere degli estranei anche da una semplice descrizione, presentare  maggiore saggezza sociale e saper risolvere meglio i conflitti, nonchè avere un maggior controllo sulle proprie emozioni. Anche se l'autrice è stata un po' parca con gli over 40, è vero che esistono precise caratteristiche riconducibili all'età. La cosa è piuttosto naturale: è quello che capita anche con le capacità fisiche, perchè non dovrebbe accadere con quelle mentali? Se ci si fa caso però, le capacità mentali che declinano più velocemente sono quelle associate a competenze motorie e sensoriali. La mente umana è uno strumento di intervento sull'ambiente meno vincolato, di quello motorio, alla prestanza fisica: nella maggior parte degli sport, 40 anni rappresentano uno spartiacque. Ma la mente sarebbe solo un surrogato dell'azione fisica se non potesse superare il mondo fisico: la mente (cioè quella parte di cervello non direttamente impiegata nel movimento) investiga il mondo reale al di là dell'apparenza sensoriale e al di là dell'intervento motorio. Noi possiamo immaginarci in cima a un albero anche se fisicamente non riusciamo più a salirci. Queste capacità, meno legate al mondo fisico, declinano più lentamente, appunto perchè non servono per agire in fretta. 
    4. Abbiamo cinque sensi. E' un altro mito, per il semplice fatto che è difficile definire esattamente i diversi ambiti di competenza delle percezioni. Esistono certamente vista, olfatto, gusto, udito e tatto, dice la Helmuth, ma esistono anche la  propriocezione (la capacità di conoscere la dislocazione dei nostri segmenti corporei), la nocicezione (la percezione del dolore), il senso dell'equilibrio, la percezione del passare del tempo e la percezione della temperatura. Nonostante tutto, siamo ancora in  deficit rispetto agli animali che, come i pipistrelli e i delfini, sono in grado di usare il sonar (gli ultrasuoni)  o, come alcuni uccelli e insetti, che riescono a percepire la luce ultravioletta o, come  i serpenti, che sono in grado di rilevare il calore delle loro prede  o, come i gatti e le foche, che usano le vibrisse per percepire il movimento o giudicare delle relazioni spaziali, oppure come gli squali, che percepiscono il campo elettrico nell'acqua e infine come le tartarughe, gli uccelli e anche i batteri, che utilizzano le linee geomagnetiche per orientarsi. Un'ultima considerazione l'autrice la fa a proposito di un altro mito legato al mondo dei sensi: la mappa gustativa della lingua.
    5. I cervelli sono come dei computer. E' vero che quando si parla del cervello si usano termini come velocità di elaborazione, capacità di memoria, circuiti paralleli e ingressi e uscite. Ma la metafora finisce lì. Il cervello non lavora come un processore, non ha una memoria in attesa di essere riempita di dati, e anche la semplice percezione visiva non è un passivo rilevamento della realtà, ma una ricostruzione attiva. E' una vecchia abitudine quella di paragonare il cervello a quanto di più nuovo la tecnologia ci offre.Cartesio paragonò il cervello a una macchina idraulica, Freud comparò le emozioni alla pressione che fa muovere un motore a vapore, poi ci fu chi lo accostò a un  centralino telefonico, poi a un circuito elettrico e infine a un computer. Ai giorni nostri, la metafora più utilizzata, è quella della rete di internet. Queste metafore, dice la Helmuth, sfruttano luoghi comuni: le emozioni mettono sotto pressione il cervello e alcuni comportamenti sono cablati nel nostro cervello. A proposito di cablati...(è il prossimo mito, fra breve).

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