sabato 26 novembre 2011

Emozione, motivazione, frustrazione e suicidio

source environmentalet.org
Avevo pensato all'emozione come  a una motivazione [Bradley 2000, 2001] . Le emozioni creano una motivazione o forse semplicemente attivano un processo. Agiscono da sole? O hanno bisogno di un input esterno?
In realtà le emozioni (soprattutto quelle primarie), che sono strettamente correlate alla presenza di determinati neurotrasmettitori, presentano dei cicli che in qualche caso sono indipendenti dall'ambiente. Si pensi, per esempio, al ciclo veglia-sonno in cui, seppure la presenza o assenza di luce gioca un ruolo fondamentale, l'esecuzione del ciclo ne è virtualmente indipendente (si pensi a tutti i luoghi in cui si vive reclusi: in una grotta per un esperimento, in un sottomarino, luoghi in cui il ciclo comunque si compie).
Dopo di che ho pensato che non solo ci tiranneggiano nel costringerci a fare qualcosa ma ci tiranneggiano anche quando, non riuscendo a fare qualcosa, ci fanno sentire frustrati.
Impedire un'azione qualsiasi a qualcuno, umano o animale, genera quasi sempre frustrazione. Questa frustrazione è proporzionale (non so se direttamente o esponenzialmente) all'intensità dell'emozione che muoveva all'azione.
Mi spiego: più siamo motivati ad agire (per fame, desiderio sessuale, rabbia) più è frustrante l'intervento che impedisce di agire.
La frustrazione ha il compito di rafforzare o mantenere la motivazione?

source wps.prenhall.com
 Se noi potessimo esportare il linguaggio emotivo da un animale qualsiasi  su un robot, per esempio, potremmo ottenerne un comportamento simile a quello di un animale, pur se basato sulla sua struttura di robot?
Per esempio: una lesione dell'amigdala nei gatti provoca due generi di comportamenti, a seconda della porzione lesionata [Zagrodzka et al. 1983]. La lesione della parte dorsale dell'amigdala inibisce il comportamento predatorio in situazione sociale (e gli fa perdere il posto nella gerarchia)  ma non in quella non-sociale, mentre la lesione dell'amigdala mediale provoca inibizione di entrambi i comportamenti predatori.
Una lesione dell'amigdala  nelle scimmie rhesus rende il loro sonno sopra una sedia di restrizione (alla quale sono adattate) meno interrotto rispetto ai controlli non lesionati [Benca et al. 2000] , a dimostrazione di come l'amigdala abbia anche un ruolo di regolazione del riposo e di mediazione della risposta emotiva o stressoria durante il sonno.
(Mi rendo conto perfettamente della crudeltà di questi due esperimenti).
E' possibile riconoscere, pur nelle differenze tra specie, delle caratteristiche comuni di funzionamento al sistema emotivo di gatti e scimmie  che costituiscono l'impronta del meccanismo emotivo?

rodent basal ganglia and amygdala - source brain mind
La frustrazione è una routine secondaria, che interviene quando una routine primaria fallisce o è impedita.  Immaginiamo due maschi che si sfidano per la gerarchia: appena si vedono si attiva una intensa risposta di aggressione che spinge ad attaccare; l'esito dell'attacco è responsabile della prosecuzione della risposta, se cioè deve continuare la risposta aggressiva o si attiva la risposta di sottomissione. La sottomissione impedisce all'individuo di perdurare nel comportamento che potrebbe condurre alla morte, la frustrazione mantiene attiva la motivazione a quel comportamento, come un fuoco che cova sotto la cenere.

source animalfreedom
La frustrazione serve dunque a mantenere desta la motivazione, è un segnale che le cose non stanno andando come dovrebbero,  è un processo attivo che avverte che quel comportamento frustrato non deve essere abbandonato del tutto.
Quando però la situazione da fronteggiare non è costituita da un evento potenzialmente mortale o comunque nocivo, qual è il ruolo della frustrazione? Cioè, in tutti quei casi in cui non si è in pericolo di vita, la frustrazione è come un inutile orpello che diventa, momentaneamente, anche un handicap?

Si immagini, ad esempio, la frustrazione conseguente una mancata promozione. Se il soggetto la cui carriera fosse bloccata momentaneamente desse sfogo alla sua aggressività sul responsabile o abbandonasse completamente l'idea di fare carriera, probabilmente pregiudicherebbe per sempre i possibili sviluppi futuri. La frustrazione (involontaria) che sopravviene in seguito alla delusione, lo protegge da possibili perdite di motivazione, mantenendo desta un briciolo di volontà. La frustrazione, in questo caso, come anche nei casi sopra riportati, è un evento al quale il soggetto in quanto corpo emotivo non può opporsi e che ha una funzione adattiva.
Possiamo dire che la frustrazione interviene sempre quando un processo viene bloccato? Che questo processo sia lo stabilire la gerarchia tra due maschi (processo che richiede l'uso della violenza) o che sia il fantasticare sugli sviluppi della propria carriera (che richiede la cognizione), sempre c'è un evento frustrante che blocca il procedimento e causa  la frustrazione.

Possiamo vedere la frustrazione come un tentativo di mantenere la motivazione in corso d'opera. Evidentemente, affinchè si realizzi un processo, cioè affinchè un soggetto perduri nella sua motivazione ad agire, è necessario che questa motivazione/emozione sia totalizzante, lo prenda tutto, e che si mantenga finchè non si è raggiunto l'obiettivo o finchè non interviene un evento che può modificare motivazione: a quel punto, ci si oppone a quella modifica della motivazione appunto con la frustrazione.

Qual è il ruolo della cognizione durante la frustrazione? O, per meglio dire, siccome la cognizione interviene comunque, in quali modi lo può fare? O rinforzare l'aspetto frustrante (rimuginazione o ruminazione) oppure superarlo (distrazione o confabulazione). 
Per gli umani non è quasi mai possibile fare a meno di intervenire cognitivamente sugli eventi della vita. Ecco che la cognizione può avere il duplice effetto di aumentare o diminuire l'aspetto positivo della frustrazione. Ma se non intervenisse, se lasciasse la frustrazione a se stessa, che fine farebbe? 

Una delle possibili risposte a episodi frustranti duraturi è la depressione, e la perdita di motivazione. Una delle possibili conseguenze di questi stati è il suicidio. E' difficile  osservare il suicidio negli animali in natura, nel senso che non è facile osservarlo sul campo, forse anche perchè raro. Meno raro è il suicidio negli animali in cattività: sia in condizioni di super affollamento che in situazioni di improvvisa mancanza affettiva, come per esempio accade ai cani che si lasciano morire d'inedia alla morte del loro padrone [Preti 2005].
Mi sembrava un buon esempio dell'estremizzazione della frustrazione: in quei casi in cui gli eventi (nel caso di cani e altri animali domestici un evento come la morte del padrone) non sono più ripristinabili, cioè in cui la modifica comportamentale indotta dalla frustrazione non è nel senso di mantenere desta la motivazione, si perdono le motivazioni ad agire, anche quelle portate dalle emozioni primarie. Questo è forse dovuto al fatto che il rapporto uomo animale viene a costituire per l'animale un rapporto totalizzante, mancando il quale vengono meno tutte le motivazioni, non essendoci altro a cui l'animale può tendere.
E' da notare, però, che il lasciarsi morire per inedia dei cani che hanno perso il padrone potrebbe dipendere anche dal fatto che questi cani accettavano il cibo solo dal proprietario.
Rispetto a quello che avviene negli animali, mi sembra che il suicidio tra gli umani come conseguenza di eventi eccessivamente frustranti, in alcuni casi possa  vedersi come l'ultima azione attiva del soggetto, in un mondo che si vede ormai come totalmente privo di possibilità di intervenire. Mentre nell'animale subentra uno stato depressivo prima di lasciarsi morire nell'umano, in seguito all'intervento della cognizione, una categoria di suicidi è rappresentata dall'esecuzione dell'ultimo gesto attivo possibile che toglie, letteralmente, dall'impasse dell'inazione.
(Non ho evidentemente considerato i casi di animali marini spiaggiati, in cui la causa del presunto suicidio è da ricercarsi probabilmente in errori percettivi e di orientamento).
Per ora termino qui, però l'ultimo argomento è da riprendere.


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M Bradley, Emotion and motivation, in J. Cacioppo, L. Tassinary, G. Berntson (eds), Handbook of Psychophysiology, 2nd ed. Cambridge University Press 2000

Bradley, Margaret M.; Codispoti, Maurizio; Cuthbert, Bruce N.; Lang, Peter J., Emotion and motivation I: Defensive and appetitive reactions in picture processing, Emotion, Vol 1(3), Sep 2001, 276-298


J.  ZAGRODZKA,  Z.  &RUDNIAS-STEpOWSKA  a n d   E.  FONBER, IMPAIRMENT OF SOCIAL BEHAVIOR  I N  AMYGDALAR CAT, ACTA  NEUROBIOL. EXP. 1983,  43:  83-77



Ruth M. Benca , William H. Obermeyer , Steven E. Shelton , Jeffrey Droster , Ned H. Kali, Effects of amygdala lesions on sleep in rhesus monkey, Brain Research 879 (2000) 130–138


2 commenti:

  1. Una lunga e bella riflessione. E' particolarmente complicato il discorso quando si affrontano le emozioni. C'è ormai una lunga tradizione speculativa che considera le emozioni come un insieme di perturbazioni biologiche "disturbanti", o quanto meno da disciplinare. Insomma, le emozioni metaforicamente sono come il dentifricio, più cerchi di farlo uscire col tappo chiuso (la frustrazione), maggiore è la tensione (col rischio dello scoppio). Voglio dire, che lungo l'intero Novecento la psicoanalisi ha consacrato l'idea di un modello psicoidraulico delle proprie emozioni (ah! le pulsioni!) che hanno praticamente condizionato parecchie generazioni di psicologi e psichiatri.

    ...

    C'è da dire che io distinguerei le emozioni che hanno una profonda matrice genetica e omeostatica, rispetto alle emozioni che strutturano il rapporto tra le persone (comunque con una base genetica ma flesibili culturalmente). Cioè terrei distinti il cervello/rettile dal cervello/mammifero. Con questo voglio dire che le emozioni hanno permesso una "catastrofica" complessittà di sviluppo della cognizione, che supporre di "atomizzarle" come un'entità fluida da contenere o non farsi sovrastare, mi sembra quanto meno riduttivo.

    ...

    Ecco, penso che le emozioni non possono bloccarsi, non possono essere considerate come un prodotto monodimensionale e pur essendo determinate geneticamente sono "disponibili" all'adattamento culturale (cioè vincolate al gruppo sociale e all'ontogenesi familiare). 

    Dopotutto, cosa intendiamo per frustrazione? Se poniamo l'osservazione: Monti è frustrato, per me, "frustrato" è un aggettivo qualficativo in una logica d'azione, cioè è "frustrato" rispetto a qualcuno. Di nuovo, analizzare i processi emotivi come se fossero delle "entità" scomponibili (il robot) fa emergere una sere di paradossi e astrazioni terribilmente difficili da applicare in un contesto clinico. 

    ....

    Ecco, che come dici te, la cognizione ha questa possibilità di generare una viabilità esplicativa delle emozioni in termini reazionali e descrittive, creando osservatori che condividono esperienza e cognizione, negoziano significati e temi di vita, per cui se per un osservatore privilegitato (cognitivista classico) esiste un individuo che è frustrato, per l'osservatore consapevolmente "compremesso" con la realtà da osservare, il discorso si arricchisce in termini narrativi, permettendo di coniugare regole generali con specificità individuali.

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  2. Un altro aspetto interessante è considerare, forzando un po' i concetti, anche il sonno rem come uno stato di coscienza s-corporato. E' noto infatti che durante il sonno rem vi è una paralisi muscolare alla quale molti attribuiscono il significato di impedire al soggetto di muoversi. Ma che stato sarebbe quello in cui posso muovermi ed agire senza averne la minima consapevolezza? E' forse uno stato anemotivo, tanto è vero che come fa capolino l'emozione ci si sveglia? E' forse un modo di essere di un organismo dotato di sistema nervoso e organi di senso ma senza quella cosa che chiamiamo emozione? Io non ho nessuna consapevolezza del sonno, a meno che non mi svegli: allora, per un po', ho consapevolezza di me all'interno del sogno come di tutta la mia realtà, dopo di che normalmente ci si sveglia.

    Caro Carmelo vorrei affrontare la questione sulle emozioni spogliandola (inizialmente)  delle implicazioni, come dire, affettive delle emozioni stesse. Considerando perciò, almeno inizialmente, cose come rabbia e amore come cose indistinte, motori dell'azione, decisori di prima istanza.

    Cioè, in sè, qual è la metrica dell'emozione, escluso il suo portato affettivo? Come opera? A questo scopo ragiono così: desidero qualcosa, mi avvicino alla cosa, la cosa fugge, inseguo la cosa, la cosa reagisce, scappare o affrontarla?
    Per rispondere a queste domande penso a un sistema "buono" per quasi tutti gli organismi e per tutte le necessità e richieste, che si serve della dotazione anatomica (e dell'onnipresente selezione) per sfoltire il numero di decisioni possibili (pruning sinaptico). Su questo primo sfoltimento innesto il secondo, mediato dall'esperienza e poi il terzo, dalla cognizione. Ovvio che il primo vero motore sono le cosiddette emozioni primarie che hanno, casualmente?, connotazioni simili in molti animali diversi.

    Sugli altri aspetti che affronti siamo perfettamente d'accordo ma competono a quello che potremo definire significato affettivo delle emozioni. Questo perchè il mio intento sarebbe quello di definire una semantica dell'emozione in termini di puro e semplice movimento o, meglio ancora, di decisione al movimento, di scelta, di intenzione.

    Ma, come noti, in ultima istanza i due momenti non sono così facilmente distinguibili, anche perchè il portato affettivo delle emozioni, quello che scaturisce dall'interazione con gli altri e che si forma per esempio in seguito alla nostra posizione gerarchica nel gruppo, oppure rispetto alla nostra età anagrafica (e che quindi è soggetto a mutare)
    è spesso mutevole e imprevisto, e dà luogo a interazioni nuove e significative, le quali sono perfetti ed efficaci motori dell'azione.
    ma tant'è, rimanere all'interno del significato affettivo non ci consentirà, credo, ci comprendere la dinamica dell'emozione (al singolare) ma servirà allo psicoterapeuta per regolare la terapia, che vedo come un gioco di incastri.
    Detto questo, ti ringrazio del tuo contributo, così stimolante.

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