mercoledì 12 gennaio 2011

Trasparenza

Verso una nuova economia dell’onestà. È questo il sottotitolo di un libro collettivo di Daniel Goleman, famosissimo psicologo autore di numerosi libri dal bestseller Intelligenza emotiva all’ultimo Intelligenza ecologica,  Warren Bennis, insegnante di Business Adminstration e autore del volume Leader, anatomia della leadership, e James O’Toole, docente di Business Ethics all’Università di Denver, intitolato come il mio post.
Il lavoro di questi autori ha una leggera attinenza con un mio articolo sulla critica. In sostanza afferma che il vecchio adagio meglio una critica costruttiva che mille elogi falsi, pur essendo citata ampiamente al momento della propria candidatura politica  da ogni individuo di buone intenzioni è largamente disattesa una volta che la candidatura si trasforma in legislatura. L’opacità, così la chiamano gli autori, del potere, la sua falsità e il modo menzognero di trattare le informazioni è responsabile dei nefasti effetti osservabili oggi. Il potere non inteso solamente come potere politico, ovviamente, perché forse, e troppo di frequente comunque, quello economico esautora l’altro nella conduzione delle società moderne e antiche.
Il libro parla anche del ruolo della rete, del potere dei blogger di far circolare notizie con elevata rapidità, del loro ruolo di modello di cooperazione dal basso, capace di smascherare i furbetti sorpresi a barare.
Ecco alcuni esempi di trasparenza adattabile a qualsiasi situazione e a ogni ambiente umano:
“Nel 2005, per esempio, il “New York times” ha riferito dell’effetto di un blogger del Minnesota sulla politica canadese[1]. Aggirando “il divieto di pubblicazione” ordinato da un giudice federale canadese, il blogger riportò una testimonianza su un’accusa di corruzione di alcuni funzionari del Partito Liberale Canadese , mentre essa veniva resa in un’aula di giustizia di Toronto.  A causa del provvedimento del magistrato, i mezzi di informazione del Canada non potevano riferire direttamente la testimonianza, così segnalarono l’esistenza del blog di Minneapolis, a cui i canadesi cominciarono a collegarsi. Il blogger, Edward Morissey, definì il fenomeno “un momento storico per i blog”. A ragione, perché il suo blog “Captain ‘s Quarters” aveva fornito ai canadesi quella trasparenza che la loro magistratura aveva cercato di negare.”[2]
E ancora:
Un caso ora classico di come il progetto stesso di un’organizzazione può impedire un buon processo di decisione si è verificato nei servizi segreti americani. Anche in questa occasione la verità è emersa dopo un insuccesso: la rivelazione che gli Stati Uniti avevano dichiarato guerra all’Iraq sulla base di informazioni assai scadenti.
In seguito, indagini interne hanno fatto emergere un problema strutturale; involontariamente il flusso di informazioni era stato progettato in modo da privare di dati indispensabili chi doveva compiere le scelte più importanti.”[3]
Questa cultura della trasparenza e franchezza riguarda non solo i luoghi di potere, economici o politici che dir si voglia, ma ogni luogo in cui si prendono decisioni, in cui la vita delle persone dipende dalla conoscenza di quante più informazioni possibili, dove anche la più piccola reticenza può avere effetti deleteri.
“Alla Nasa, per esempio, le regole culturali di fondo che sedici anni prima avevano contribuito all’esplosione del Challenger, erano ancora operanti nel 2003, e portarono al disastro del Columbia. La commissione che indagò sulle cause di questa seconda tragedia andò oltre le spiegazioni tecniche – un pezzo dell’isolamento termico che si era staccato danneggiando un’ala -  e biasimò una cultura dell’organizzazione in cui i progettisti avevano paura di esprimere le proprie preoccupazioni sulla sicurezza a dirigenti impensieriti più di rispettare il calendario dei voli che dell’incolumità delle persone.[4] […] Ma dal 2003 la Nasa è diventata ancora meno trasparente, e gli amministratori statali fanno pressione sui dipendenti, compresi gli scienziati inquieti per il riscaldamento globale, per evitare che divulghino opinioni in disaccordo con le politiche del governo in carica.[5]
Ma sarà vero che la trasparenza può rappresentare un nuovo e potente metodo per riconquistare la fiducia del cittadino verso quelle organizzazioni di potere sia politico che economico o anche medico o militare, sarà vero che l’ammissione di errori, o ascoltare anche chi è vicino ai problemi ma non occupa posizioni di comando, o la semplice abitudine di non mentire (almeno nei casi in cui questo è possibile)  sono in grado di riallacciare i fili spezzati tra chi comanda e chi deve obbedire? Le leggi sono veramente uguali per tutti e nascono e sono vergate per gli scopi dichiarati? Quelle medicine sono veramente sicure e soprattutto utili o sono solo un contentino per l’industria farmaceutica? Le emissioni elettromagnetiche dei nostri telefonini o delle antenne sparse da ogni parte sono veramente prive di effetti nocivi oppure come con l’amianto o il mercurio delle amalgama dentarie si scoprirà che sono dannose solo in ritardo?
Il mondo è opaco. Forse una piccola parte di quella trasparenza è demandata anche a noi, cerchiamo di non opacizzarla a nostra volta.
Vi lascio con le parole che chiudono il primo dei tre saggi del libro:
La trasparenza è un segno della salute morale di un’organizzazione.[6]
Post attinente a uno pubblicato recentemente sugli Indici della corruzione di Transparency International.

[1] Clifford Krauss, A Blog Written From Minneapolis Rattles Canada’s Liberal Party, “New York Times”, 7 aprile 2005 (NdA)
[2] D. Goleman, W. Tennis, J. O’Toole, Trasparenza, Rizzoli 2009, p. 26-27
[3] Op. cit. pag. 34.
[4] John Schwartz e Matthew L. Wald, Loss of the Shuttle: The Overview; Report on Loss of  Shuttle Focuses on Nasa Blunders and Issues Somber Warning, “New York Times”, 27 agosto 2003. (NdA)
[5] Op. cit. pag. 52-53.
[6] Op. cit. pag. 53.

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