Spesso il credente trova scampo alla tristezza che origina dalle avversità imputando gli eventi avversi a prove da superare. Egli non smette di amare e credere solo perchè colui che ama e colui a cui crede gli causa un dolore.
Questo fatto è, nella sua semplicità, straordinario.
Generalmente, se qualcuno ci danneggia, è sulla strada buona per guadagnarsi il nostro risentimento. E' una reazione normale. E' logico che avvenga così: provenga dal mondo animato o da quello inanimato, il riconoscimento e la paura associati a chi ci causa dolore serve a salvarci la vita. Se coloro che perdonano sempre e comunque dovessero perdonare tutti i loro carnefici, probabilmente finirebbero estinti. In realtà, non si tratta di perdono ma di accettazione senza risentimento, ma ai fini della sopravvivenza sarebbe lo stesso: pensate a topolini che continuino, nonostante le morti tra i compagni, ad amare i gatti.
Il fatto che i credenti non si siano estinti ma anzi siano proliferati dipende dal fatto che colui a cui si crede non è poi così cattivo. Egli è cattivo solo nella misura in cui lo sono gli uomini e i fenomeni naturali. Solo che di questi ultimi due, anche il più convinto dei credenti, mantiene memoria, nel senso che ricorda e impara. Spesso a evitarli.
La comprensione del credito di fiducia che il credente fa verso colui a cui crede è possibile solo analizzando chi non crede. Chi non crede spesso non trova scampo alla tristezza che origina dalle avversità, indirizzandola verso altri uomini quando è il caso oppure indirizzandola proprio verso il caso, che è la versione più democratica di colui al quale alcuni credono.
La differenza sta in questo, statisticamente parlando. Chi crede accetta gli eventi e chi non crede non li accetta. Non che questo cambi, sovente, il risultato ma, dall'endocrinologia sappiamo che uno stress continuo è fonte di malattie. Trovare un sistema per accettare l'inaccettabile è, a mio avviso, un discreto risultato, in ottica di sopravvivenza.
Quali sono i portati di questo atteggiamento?
Parliamo di mondi.
Portare il mondo reale, delle calamità, nel mondo immaginario, di colui a cui si crede, comporta la rinuncia a dover scegliere. Il mondo è così, e portandolo da quello reale a quello immaginario ne si attenua la portata nociva. Il mondo immaginario è il mondo che vogliamo, dove tutto è previsto. Questo aspetto, la completa previsione, libera dallo stress.
Il contrario avviene in chi porta il mondo immaginario nel mondo reale. E' quello che capita a chi cerca una spiegazione causale a fenomeni casuali. Siccome il caso non è accettabile dal punto di vista affettivo bisognerà dargli un nome e un cognome, e questo contribuisce a personificarlo ancora di più.
Si dirà: tutto questo per spiegare chi crede e chi non crede? No, molto di più.
Il fattore volontà.
Non si accetta facilmente il male da qualcuno quando è fatto volontariamente. Eppure si accetta che colui al quale si crede ci sottoponga senza remore al male, senza curarsi dei nostri desideri, anzi imponendoci l'accettazione come una sorta di prova. Questo comportamento è difficile da capire, dall'esterno. Eppure, eppure qualcosa si può dire. Chi, a nostra memoria, specie durante l'infanzia, ci sottoponeva, spesso, a situazioni sgradite -fare i compiti, andare a scuola, lavarsi le mani, venire a mangiare- eppure non per questo perdeva la nostra fiducia? Non c'è bisogno di dirlo.
Per me, che non credo (almeno in colui al quale credono i cattolici) resta impossibile comprendere: il credere è dunque un atto di fede, inspiegabile, è una devozione assoluta, un cedere il comando in maniera totale, come accade con un genitore, seppure brontolando. Lo si fa perchè il genitore è la luce degli occhi, è tutto, e la natura vuole che vi sia attaccamento reciproco. Il fanciullo non smette di amare i genitori perchè questi gli impongono scelte a lui sgradite, pur non rinunciando a manifestare il proprio disappunto. E' solo dall'intrinseca insicurezza che giunge l'attribuzione del potere (quasi) assoluto: il fanciullo è perso senza l'accudente principale e questa conoscenza affettiva non è spiegabile nè lo necessita. Egli, il fanciullo, sa che è così e frigna solo perchè la medicina è amara, ma non scambia la propria affezione con il risentimento momentaneo. La sua è una fede.
E' la fede nella conoscenza del futuro e nell'aspettativa del futuro: egli sa che è così -il genitore l'accudisce- e così sarà domani, lo sa senza dirselo, lo sa perchè ama i suoi genitori e non può farne a meno. Egli è, a tutti gli effetti, un fedele, un credente. Se richiesto, non sa spiegare le motivazioni, ma sa sentirle affettivamente. Il mondo delle decisioni adulte è al di fuori della portata della sua comprensione, nè lui chiede di comprendere. Il motivo è sempre lo stesso, il ritorno affettivo: il genitore costruisce la sua autorevolezza su un costrutto affettivo solido e indistruttibile che non è scalfibile se non da un costrutto affettivo contrario di portata pari o superiore.
Così è per me il credente adulto: un fanciullo agli occhi di un genitore assoluto.
Il fattore volontà è dunque questo. La volontà si costruisce, con il tempo. Questo è un fatto assolutamente necessario perchè da questo evento dipende l'indipendenza comportamentale del nuovo soggetto. Il nuovo soggetto deve maturare la sua volontà e sentire tutte le altre come opposte alla propria per poter stabilire il proprio sè. Il sè è dunque, per me, il collasso della scelta. Nel mondo reale la scelta impone a volte il confronto -non sempre amichevole- tra due volontà. Durante l'infanzia il fanciullo cede al genitore per difetto di struttura, il sè appunto, ma anche perchè il suo mondo è soprattutto immaginario, cioè a dire i suoi mondi reale e immaginario sono sovente indistinguibili, per lui, che è capace di portare in un mondo immaginario ciò che non può essere contrastato a sufficienza dal suo insufficiente sè.
Non vorrei che questo tentativo di spiegazione risultasse involuto. L'intento è quello di definire una situazione, l'infanzia, in cui la parte volitiva non si è formata, e per questo l'apparente conflitto tra volontà propria e altrui si risolve anche nel mondo immaginario, nel quale, per definizione, non si sceglie. Questo passaggio è possibile, nell'umano, grazie all'influenza del linguaggio verbale. Nell'animale, invece, in cui l'infanzia è quasi sempre più breve, la risoluzione del conflitto è mediata unicamente dall'immaturità del sistema neurale, che infatti, a mio parere, si carica di una molla stressoria che si manifesta pienamente nel momento della separazione, quando la molla è carica.
Si consideri, comunque, che nell'ambito del linguaggio motori-corporeo, l'unico al quale hanno accesso la quasi totalità degli animali, non è necessario fornire una compensazione mondo reale-mondo immaginario, perchè non vi sono gli strumenti cognitivi per instaurarla. L'animale subisce la volontà altrui solo per difetto proprio, in maniera fisica, preparandosi per quando saprà imporre la propria volontà, il che equivale ad imporre il proprio sè, a esistere come individualità dotata di volontà. In questo gli fa certamente gioco la concessione di un'ampia quantità di affetto positivo nei confronti dell'accudente, attraverso i noti meccanismi dell' attaccamento.
Due volontà si scontrano.
Come si fa a sapere di essere un'individualità? Credo che questa costruzione cominci con l'opposizione alla propria volontà. Inizialmente, il piccolo (sia umano che animale) possiede una volontà che non è propriamente sua, è cioè mediata dagli istinti, è la natura ereditaria che parla per lui, che lo fa agire. Se fosse lasciato agire indisturbato, il piccolo probabilmente svilupperebbe quello che si chiama un ego smisurato, che è il risvolto della medaglia dell'assenza di ego. L'ego o sè è la delimitazione. Attraverso questa delimitazione si stabiliscono i confini e nel contempo si apprende di essere. L'ego smisurato è come un liquido senza contenitore. Se si immagina la formazione del sè come procedente attraverso l'esibizione di tutti i desideri o volontà del soggetto, messi in pratica per mezzo di sistemi tipo prova ed errore (euristiche, esperienze) si può facilmente comprendere che, non trovando impedimento di sorta alla propria realizzazione, queste volontà tendano a occupare tutte le nicchie. Così chi è abituato ad averla sempre vinta si turba fortemente al primo diniego.
Per comprendere il meccanismo si immagini che la competenza motoria del mondo, espressione fisica della propria volontà, passi per l'esecuzione di tutti gli atti motori necessari a comprendere e agire in uno spazio fisico-emotivo. Il che contempla sia il saper salire le scale che il sapere che il fuoco brucia. Se non interviene nessuna limitazione a questa mia esecuzione, nemmeno la mera risposta del corpo, come saprò di essermi mosso o di aver provato dolore? L'alzata dello scalino è il primo ostacolo alla mia (smisurata) volontà iniziale, che vuole tutto. essere dotati di una volontà che vuole tutto è fondamentale per scremare quel tutto. Siamo dotati, alla nascita, di un'esuberanza di collegamenti sinaptici che vengono eliminati mano a mano che maturiamo e facciamo esperienze, eliminando l'onnipotenza.
Ecco che compare un termine di fede: l'onnipotenza. L'individuo, inizialmente, è onnipotente, nel senso che il suo sistema nervoso potrebbe fare tutto. Paradossalmente, questo poter fare tutto è proprio il suo limite. Se per salire le scale io penso che possano essere usati infiniti movimenti, come, a titolo d'esempio, saltellare sulla lingua (ho fatto appositamente un esempio assurdo, ma onnipotente) non imparerò mai che invece il numero di comportamenti concessi per salire le scale è limitato. E quando il limite significa la differenza tra la vita e la morte (al posto delle scale metteteci un predatore), tantissimi individui, se non tutti, sarebbero votati alla morte. Se non ci fosse quel meccanismo. L'impedimento alla volontà primigenia forma un repertorio di comportamenti, il quale forma un sè, il quale forma un individuo dotato di volontà. Alla fine, questa volontà non si scontra solo con oggetti inanimati ma anche con oggetti animati, dotati di altre volontà e non una sola, come potrebbe averla il pavimento o le scale. Il sè è dunque definibile come la risultante di tanti impedimenti fisico-emotivi all'espressione delle proprie volontà, il che può far comprendere bene come, essendo in debito con la composizione fisio-anatomica, i comportamenti degli individui di una specie siano insieme simili e dissimili: simili perchè vi è appunto il vincolo fisio-anatomico (volare, saltare, nuotare), dissimili perchè ogni individuo è leggermente diverso, dal punto fisio-anatomico, dall'altro.
...Ehi,signore,sono in piena attività...
RispondiEliminama,lei?
ciao
Qui, invece che darsi all'ippica,conviene darsi all'orticoltura, anche se i risultati languono.
RispondiEliminaAllora,si sbrighi,che siamo in primavera!
RispondiEliminaHo ritrovato il tuo blog........ho curiosato qua e là......sono rimasta incantata dall' ultima foto, dove l' ombra dell' orticoltore che si staglia sul prato sembra una strana ed inquietante presenza.......che sia l' uomo nero?
RispondiEliminaNO, davvero una foto curiosa e particolare.
*_*