La saggezza popolare afferma: di vita ce n'è una sola. E' sottinteso, nel detto, l'attaccamento che si matura nei confronti della vita e che, proprio per la sua unicità e non ripetibilità, ce la fa giudicare il bene più prezioso. Pure, capita a tutti prima o poi un momento in cui si riflette e si giudica di aver sprecato questo bene prezioso.
Cosa assai strana è la mente umana. Ecco, d'improvviso un tale si ferma e pensa: ho sprecato la mia vita! Ma su quali basi è possibile fare questa affermazione? Quali sono i requisiti necessari per poter pensare una cosa del genere?
Per comprendere il senso delle domande precedenti bisognerà capire che intendo su quali basi un sistema come quello cognitivo umano è in grado di immaginare qualcosa come il senso della propria vita, e di trarre conclusioni come quella ipotizzata.
Per esempio: la maggior parte di noi è in grado di comprendere e interpretare correttamente alcuni stati mentali come fame, sete, desiderio sessuale e così via. L'aspetto fondamentale di questi stati è che si danno in sè, senza necessità di alcuna verbalizzazione, sono immediatamente comprensibili. Sarà la loro natura primordiale ma sono pochi, con la debita eccezione del sesso, che si interrogano sul perchè hanno fame o hanno sete. E anche sul sesso, notoriamente più denso di complicazioni, è semmai una volta esaurito lo stimolo che ci si pone delle domande. La conclusione che abbozzo è che una soluzione fisica a uno stato mentale comporta una decisione. Una decisione ha come conseguenza un atto (o più atti) al quale consegue l'estinzione (momentanea) dello stato mentale.
C'è un pensiero ricorrente che mi assilla riguardo l'attività cognitiva umana: la consapevolezza che il cervello non è soggetto al problema della terminazione di un programma, problema che affligge e non poco l'intelligenza artificiale, ma che questa eccezione si paghi, in qualche modo.
Un modo è appunto questo: il programma non ha necessità di essere per forza terminato ma questa libertà la si paga con la cogenerazione di nuovi stati mentali.
Si rifletta su questo.
Un requisito fondamentale per la terminazione di un programma neurale nel nostro cervello è che si raggiunga il traguardo per il quale si è dato. Per tornare al nostro esempio di sopra, è pur vero che lo stato mentale della fame si dà da sè ma se non è soddisfatto mantiene il soggetto in uno stato di attività e allerta. La ricerca attiva di cibo è la condizione necessaria affinchè l'individuo non perisca d'inedia: in questo caso il cervello dell'animale sopporta la non terminazione del programma a patto che rimanga attiva la richiesta di soddisfazione della sensazione di fame. Si noti che, come spesso accade, la fame letteralmente aguzza l'ingegno. La difficoltà che hanno i carnivori di reperire fonti di cibo necessita proprio di questo meccanismo neurale che, invece di bloccarsi in un loop infinito (come accade ai computer), appunto cogenera altre strategie, altri scenari, allo scopo di trovare stati di affinità con lo scopo principale. Questo è facile da comprendere se si osserva qualche carnivoro, compreso il vostro gatto, quando va a caccia. Una volta raggiunto lo scopo il programma si termina.
Ma, se non si raggiunge lo scopo? L'ipotesi che faccio è che, per esempio, una domanda implicita nell'asserzione ho sprecato la mia vita, è: ha un senso o uno scopo generale, la vita? Se ipotizziamo che la domanda ha un senso generale la vita? non abbia risposta, allora la libertà di non dover per forza terminare un programma diventa una gabbia. E appunto perchè in realtà non c'è risposta,e quindi non la si potrà mai trovare, il continuare a ruminare sul problema può portare alla falsa convinzione di aver sprecato la propria vita.
Non riuscire a raggiungere il traguardo che ci si pone è fonte di stress. Non riuscire a catturare la propria preda è fonte di stress per qualsiasi animale, uomo incluso. Come sempre, non raggiungere il traguardo attiva percorsi neurali alternativi la qual cosa, unita alla possibilità di non terminare il programma, genera la cosiddetta ruminazione sul tema, che fagocita continuamente elementi che hanno attinenza con quello originale. Il fatto sorprendente della ruminazione è che, una volta catturato un elemento che abbia una parte di attinenza, si crea comunque un allargamento degli agganci possibili. La parte non attinente all'elemento originale è in grado di richiamare elementi attinenti a lei e non a quello originale e così via, in un allargamento continuo.
La ciliegina, infine. Come mai non terminare un programma, pur essendo compatibile con la prosecuzione del programma, genera stress? In questo caso vi è un errore dovuto al fatto che la cognizione umana probabilmente non è nata per ruminare di filosofia ma solo del pranzo che salta. Come detto, un programma che non termina genera stress per mantenersi attivo perchè, prima o poi, il programma deve essere terminato. Se però la soluzione non esiste, come nel caso ipotizzato del senso della vita, siamo costretti a dover ruminare in eterno, da cui lo stato di frustrazione. Lo stress non è nato per stimolare domande oziose come quelle del filosofo naturalista ma per quelle più terra terra del corpo. Ma forse è stato un bene, per tutta l'umanità, che qualcuno ci si sia incaponito, permettendoci di sviluppare una cosa come la cultura basata sul linguaggio verbale astratto, alla base della formazione delle civiltà umane.
Nessun commento:
Posta un commento
Come si dice, i commenti sono benvenuti, possibilmente senza sproloqui e senza insultare nessuno e senza fare marketing. Puoi mettere un link, non a siti di spam o phishing, o pubblicitari, o cose simili, ma non deve essere un collegamento attivo, altrimenti il commento verrà rimosso. Grazie.