domenica 13 novembre 2011

Dei delitti e delle pene: dalla giustizia retributiva alla mediazione penale

In extremis, uscendo dalla libreria già con un buon carico, con la coda dell'occhio scorgo su una copertina  il nome di Gherardo Colombo. Allora mi fermo e osservo meglio cos'è che ha attirato la mia attenzione. E' un esile volumetto dell'ex magistrato, dal titolo accattivante Il perdono responsabile. Una rapida occhiata al contenuto mi convince a comprarlo. Per riassumere l'argomento di questo scritto dell'ex magistrato cito il sottotitolo
Si può educare il bene attraverso il male? 
Le alternative alla punizione e alle pene tradizionali
L'idea portante del volume è che spesso il sistema della giustizia penale italiana, che è basato sulla giusta retribuzione della pena, è un sistema che porta all'esclusione, all'isolamento, a far sopportare al colpevole la stessa sofferenza che ha inflitto alla vittima e che, così facendo, non mira al recupero del reo e non influisce affatto sulla recidiva.
L'alternativa è l'inclusione e il perdono, attraverso un procedimento non ancora attivo nel nostro paese, anche se la Raccomandazione n. (99)19 del Consiglio d'Europa del 1999 invitava gli Stati membri a procedere in tal senso.
Di che si tratta? Si tratta della mediazione penale, definita come
qualsiasi procedura per la quale vittima e colpevole sono messi in condizione, se vi consentono liberamente, di partecipare attivamente alla soluzione delle difficoltà derivanti dal reato con l'aiuto di una terza parte imparziale (il mediatore). [pag. 105]
Quindi qualsiasi tentativo di non concepire la detenzione come pura e semplice repressione,  insieme a tutti gli strumenti adatti al reinserimento, come affidamento sociale, lavori socialmente utili, scolarizzazione, partecipazione a gruppi di discussione, e così via.


 La premessa è che, appunto, l'attuale sistema di gestione della giustizia penale basato sulla pena retributiva, in pratica la condanna penale, alla quale si deve aggiungere l'aggravante del sovraffollamento delle carceri, l'enorme numero di suicidi (1 ogni 1000 detenuti all'anno), di tentati suicidi (1 ogni 100 detenuti all'anno) e l'elevatissimo numero di atti di autolesionismo (1 ogni 10 detenuti all'anno) [1], non costituisce affatto una deterrenza al delinquere anzi, considerato l'aspetto esclusivo (nel senso che esclude il reo dalla società, anche quando viene scarcerato) contribuisce all'aumento delle recidive, facendo sentire il reo come un reietto, un escluso da quella società che dunque non egli non si perita di aggredire.

imagecredit ristretti.it
Ad avvalorare la tesi che la pena alternativa è più funzionale alla riduzione della recidiva cita alcuni dati (utilizzo come fonte la stessa di Colombo cioè il sito www.ristretti.it). Per esempio, i recidivi dopo affidamento sociale rappresentano il 19% degli affidati (1.677 su 8.817, anno 2005) [2], mentre per la popolazione carceraria che sconta il periodo detentivo in carcere il tasso di recidiva, analizzato per classi di età, è il seguente [3]

imagecredti giustiziaminorile.it
Vi è anche una statistica delle recidive rispetto a chi ha beneficiato dell'indulto, precisamente l'ultimo del 2006 [4]. Su 27.083 che hanno beneficiato dell'indulto (di cui 16.690 italiani e 10.393 stranieri), 7594 sono stati arrestati di nuovo, con un tasso di recidiva del 28% circa.

imagecredit ristretti.it

source altrodiritto.unifi.it
Il bene più prezioso che deve difendere la società attraverso l'organo giudiziario è il benessere stesso della società nel suo complesso oppure la giusta retribuzione della pena a chi delinque? La domanda ha un effettivo valore fondante, perchè dalla risposta e quindi dalla definizione della priorità, dipenderà l'assunzione della migliore strategia. Lungo le 100 e passa pagine di questo agile volume l'ex pm si adopera per dimostrare che non è semplicemente incarcerando e detenendo per un numero di anni variabile un colpevole che noi risarciamo la vittima la quale, anzi, forse nessun beneficio trae da questa sequenza, inteso come facilitazione al recupero della violenza patita.
Egli sostiene (non da solo) che il contatto tra vittima e colpevole (con la conseguente mediazione della pena, che comporta per il colpevole la presa visione e il carico emotivo delle sue azioni, all'interno della società e non marginalizzandolo e così incoraggiandolo a prendere le distanze dal reato) contribuisca al superamento del trauma della vittima (grazie alla umanizzazione del colpevole) e alla interiorizzazione da parte del colpevole del suo reato (grazie all'inclusione all'interno del sistema affettivo vittima-colpevole e non alla sua esclusione).
Non è dunque dal comminare la giusta pena detentiva che si otterrebbe il massimo beneficio per la società, stante il più alto numero di recidive dopo detenzione in carcere rispetto, per esempio, alle pene alternative. Ma non apporterebbe nemmeno il beneficio sperato alla vittima  forse, non più, almeno, di un confronto aperto e mediato tra i due soggetti,  in cui la vittima possa superare il trauma della violenza  e il colpevole, come detto, attraverso l'elaborazione dei propri atti, comprenderne il portato traumatico.

Tra gli esempi citati in questo senso vi sono il recente caso di un ventenne ucciso in una discussione con un coetaneo la cui madre è capace di perdonare l'assassino del figlio
"Sono preoccupata per quello che dovranno affrontare nelle prossime settimane il ragazzo e la sua famiglia. Non proverò mai odio per nessuno e spero tanto che anche gli amici di Lorenzo facciano altrettanto...Sicuramente quel ragazzo non voleva uccidere mio figlio. Non si è reso conto di quello che stava facendo." [pag. 11]
e quello di alcuni brigatisti rossi, nello specifico quelli che avevano ucciso Vittorio Bachelet, vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, scossi profondamente nell'animo dopo che il figlio minore di Bachelet aveva pregato per loro e annunciato il suo perdono.

E' opportuno fare dei distinguo, però. Specialmente nel secondo caso, quello dei brigatisti rossi, molto colpiti e profondamente scossi a livello interiore, occorre notare che i reati connessi  a questa tipologia sociale non sono quelli definibili come reati comuni, essendo i brigatisti mossi da intenti profondamente ideologici ed essendo loro stessi individui acculturati o dediti alle letture. Questo serve a spiegare come sia stato possibile nel loro caso, e in altri sempre riguardanti brigatisti o terroristi degli anni di piombo, ottenere una modifica e un pentimento così sostanziale una volta verificata tutta la portata emotiva e umana dei loro atti. A questo ha sicuramente contribuito il livello intellettuale e le motivazioni che spingevano ad agire questi soggetti, motivazioni dalle quali non era esclusa la capacità di comprendere lo stato d'animo delle persone offese o dei più deboli, quale poteva essere la classe operaia.
Non è quindi facilmente generalizzabile la conversione del reo, in considerazione appunto della variabilità delle motivazioni a delinquere e della diversità culturale dei soggetti che delinquono. Questa frase, ad esempio, mi viene in mente se penso ai criminali mafiosi 
"La gente sono vermi e devono rimanere vermi"[4]
che, francamente, non sembrerebbe lasciare molto spazio a una conversione. 
E' dunque da una oculata e attenta gestione di questa mediazione penale o alternativa alla pena detentiva che potrebbe scaturire un ottimo sistema  preventivo della recidiva; dall'inclusione di quei soggetti, penso ai minorenni, per esempio o ai delinquenti occasionali o non abituali che meglio potrebbero rispondere, nell'ottica di massimizzare entrambi gli aspetti, recupero della vittima e protezione del benessere sociale.



source positive-parenting-ally
Termino con una considerazione che sarà occasione di un approfondimento successivo. In generale, sia all'interno di una società che nell'interazione personale hanno notevole importanza le dinamiche affettive e quelle per stabilire le gerarchie. E' noto che in una società nella quale le gerarchie siano stabilite in modo chiaro e accettato da tutti vi sono meno conflitti. Però si parla soprattutto di primati non umani. Anche se l'assunto resta valido probabilmente in ogni aggregato animale l'uomo, essendo dotato di capacità cognitive superiori agli altri primati, è naturalmente votato all'instabilità. Due sono, tendenzialmente, le caratteristiche che si possono opporre all'instabilità di un aggregato umano: l'autorità, nella quale la disposizione gerarchica è rigida e strettamente controllata, e l'autorevolezza, nella quale si attiva l'autocontrollo. Nel caso dell'autorità, l'accettazione della propria posizione e del proprio ruolo è in funzione della capacità di controllare gli altri e far rispettare la propria volontà da parte dell'autorità per cui, tutto quello che sfugge al controllo autoritario è libero di manifestarsi. L'autorevolezza, tramite l'autocontrollo, ovvia a questo problema. Anche quando l'autorità non riesce a controllarti o non è così severa nel far rispettare il proprio volere, l'autocontrollo agisce come mediatore e controllore.
Naturalmente, nessuna società, per quanto dittatoriale o anarchica possa essere, può dirsi completamente autoritaria o autorevole. E' sempre un insieme delle due caratteristiche, diversamente mescolate. E' però di notevole interesse cercare di capire come si riescono a manifestare queste caratteristiche e quali presupposti necessitano all'interno del singolo individuo per palesarsi.
In più, non può essere escluso dal discorso l'aspetto psicologico dell'interazione, dalla definizione del quale può seguire una migliore comprensione delle implicazioni morali e delle dinamiche affettive  presenti in ogni rapporto e anche in base a queste prendere le migliori decisioni.








Gherardo Colombo, Il perdono responsabile, Ponte alle Grazie 2011 (i numeri di pagina in parentesi quadra nell'articolo si riferiscono al volume)


[1] Ministero Giustizia: statistiche sui suicidi in carcere dal 2004 al 2007 (pdf)
[2]  Giustizia: statistiche sulla recidiva tra gli affidati ai servizi sociali (pdf)
[3] Giustizia minorile
[4] Roberto Saviano, Gomorra, 2006

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