Vi sono due cose da tenere a mente quando si tratta di alcune libertà, di quelle libertà che si possono legittimamente pretendere perchè non danneggiano nessuno: parlo della libertà di cura.
Libertà di cura significa che, se non voglio, non sarò curato. Questa libertà (non so quanto fondamentale, comunque cosa c'è di più importante della propria vita?) non comporta mai e in nessun modo l'altra: se il paziente deve avere la possibilità di scegliere se farsi curare o no, il curante non può scegliere, egli dovrà sempre prestare la sua opera, a meno che il paziente non chieda diversamente.
Obbligo di cura, per il curante, libertà di non farsi curare, per il paziente.
Fin qui, penso, niente di particolare.
E' possibile ipotizzare che eutanasisti e antieutanasisti abbiano, ognuno a modo suo, grande rispetto della vita umana? Solitamente gli antieutanasisti rivendicano, in prima istanza, che la proprietà della vita non è del legittimo possessore. E', come dire, a noleggio, un noleggio obbligato finchè non ce la richiedono indietro. Su queste basi non può esserci confronto perchè i radicamenti ideologici -come si chiamano adesso i pre-giudizi- da qualunque parte vengano, costituiscono un ostacolo alla discussione.
Non è dunque sulla proprietà che può essere giocata la questione. La mia vita appartiene unicamente a me: questo potrebbe essere, salomonicamente, un punto di partenza bilanciato sul quale iniziare a ragionare. Però questo non è completamente vero.
Il concetto di libera scelta della vita che si cela dietro la scelta abortista o contraccettiva implica semplicemente un atteggiamento edonista oppure significa riconoscere a questo atto un valore che va al di là della vita che nasce? In pratica, frapporre tra la vita che deve nascere e le implicazioni che comporta un atto volitivo non è forse anche una presa di responsabilità, un riconoscimento che la nuova vita non è semplicemente un nuovo venuto ma modifica profondamente le relazioni dei soggetti interessati, togliendogli parte della loro libertà di scelta della vita?
Il nuovo nato modifica in modo sostanziale le vite dei genitori, obbligandoli a curarsene, vincolandoli ad affetti che peseranno nelle loro decisioni future, tali per cui essi, più difficilmente, potranno dire: la vita è mia e ne faccio quello che voglio.
In effetti, però, ogni relazione ha queste implicazioni. La rete sociale delle nostre parentele e amicizie crea una ragnatela che ci trattiene, impone un obbligo a vivere, per non causare dolore a chi è destinatario e mittente di tali affetti.
Per tornare all'eutanasia, questo insieme di ragionamenti si potrebbe tradurre con l'osservazione: la vita, nel momento stesso in cui tu crei un insieme di legami, una rete affettiva, non è più solamente tua ma appartiene in piccola parte anche a quelli con cui sei legato. La tua scomparsa causerebbe loro un dolore e dunque, per veder riconosciuta legittimità morale all'eutanasia, occorre liberarla dalle implicazioni nocive per l'affettività altrui. Se non che, per la particolarità del frangente nel quale viene richiesta l'eutanasia, la situazione è spesso tale per cui la rete affettiva si trova nella medesima condizione: pretendere la vita dell'altro per non veder aumentata la propria sofferenza.
In generale le proprie volontà in merito al cosiddetto testamento biologico devono essere espresse attivamente e quando si è in possesso di tutte le proprie facoltà mentali. Ma perchè uno dovrebbe desiderare la morte -se non l'ha fatto prima, quando stava bene- piuttosto che essere curato e accudito fino all'ultimo?
In fondo, per quando si troverà nella condizione di pretendere rispettata la sua volontà, con tutta probabilità sarà in uno stato di ridotta o assente consapevolezza, del genere di quella associata allo stato vegetativo permanente. Dunque, che differenza potrebbe fare per lui continuare a vivere in stato vegetativo oppure morire?
Probabilmente nessuna.
Qui entra però in ballo la rete sociale dei legami affettivi. E' chiaro che non può essere uno sconosciuto ad accampare pretese sul testamento biologico di un individuo ma può farlo solo un parente o qualcuno legato da vincoli affettivi duraturi o in genere la pubblica autorità.
Quando qualcuno che ha diritto di farlo richiede la pratica dell'eutanasia non lo fa, il più delle volte, perchè vuole che cessino le sofferenze del malato, perchè si dà per scontato che la situazione sia di completa assenza di dolore fisico, ma probabilmente per altri motivi.
Uno di questi potrebbe essere l'esaudire la volontà del malato. Ma, ognuno di noi, quando prepara il testamento biologico, tiene nella giusta considerazione l'eventualità che un atto volontario nella cessazione della vita, e non il tragico insieme di fattori casuali e causali, possa causare sofferenza nella nostra rete affettiva?
Di fronte a eventi che vanno al di là delle possibilità umane ci si arrende, ma di fronte a una scelta volontaria?
Chi sceglie il testamento biologico tiene in dovuta considerazione quello che pensa la sua rete affettiva?
Chi afferma di desiderare la cessazione delle cure e dell'alimentazione potrebbe sottintendere due cose: la scelta volontaria ed, eventualmente, l'indifferenza ai sentimenti altrui.
Allora mi viene da obiettare che probabilmente è della rete affettiva l'esigenza, in situazioni simili allo stato vegetativo permanente, di troncare il legame, per evitarsi delle sofferenze. Oppure per impedire che il ricordo carico di affetto sbiadisca nella grigia quotidianità dell'abitudine.
Potrebbe essere dunque una ragione altruistica quella che guida la scelta dell'eutanasia? Come già detto, nello stato vegetativo difficilmente il soggetto è in grado di sperimentare alcunchè di simile al normale stato di coscienza per cui occhio non vede, cuore non duole.
Ma l'occhio che vede c'è. E' quello degli altri, della nostra rete affettiva. Quell'occhio vede e quel cuore duole. Duole anche di una previsione di attutimento affettivo, trasportato dall'abitudine.
E allora è come se, quando uno decide di scrivere un testamento biologico, avesse un po' fatto questi ragionamenti, che conducono infine alla legittimità morale della scelta dell'eutanasia.
Infatti non è solo egoismo quello che anima il soggetto ma riguardo per gli altri: non voler pesare, non voler annacquare i sentimenti con l'abitudine, non volere far scadere la relazione nell'analgesia affettiva.
Questa situazione non si raggiunge sempre. Ogni caso può avere la sua storia e, in linea generale, si delineano delle tipologie anche in riferimento all'età dei malati.
Ritengo che nel momento in cui i desideri del malato e della sua rete affettiva coincidono, come ipotizzato sopra, ebbene quello sia un buon momento per eseguire le volontà del testamento biologico.
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