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Uno degli aspetti fondamentali della ventennale questione della linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione è questo: chi decide se un'opera pubblica si può fare o no?
Una volta che, a torto o a ragione, lo Stato decide di eseguire un'opera, se una parte limitata della cittadinanza si oppone all'esecuzione, che si deve fare?
Si pone cioè il problema del fatto che, se una minoranza fa opposizione, lo Stato deve cedere la propria sovranità o deve imporla?
E' noto che chi voglia protestare o scioperare cerca di avere il massimo della visibilità e di causare il massimo del disagio. Infatti, chi mai si prenderebbe cura di uno che scioperasse nel chiuso di casa sua senza infastidire o informare nessuno? E così, oltre a quello inerente la preminenza su chi deve decidere, c'è il problema di quanto può interferire con gli altri una protesta o una sciopero. Bloccare strade e autostrade, impedire la consegna delle merci, finanche fare resistenza passiva causando disagio agli altri, è lecito oppure è una violazione della libertà altrui? Occorre precisare che quasi tutti quelli che protestano e scioperano attuano o tentano di attuare questi blocchi, tanto che è diventata una prassi abituale, e non solo ovviamente il movimento no-Tav.
Su queste due questioni, più che sul merito di questa linea linea ferroviaria ad alta velocità, provo a discutere.
Michele Ainis, costituzionalista, nella trasmissione di Michele Santoro lancia la proposta di un referendum. Il referendum, in sè, è lo strumento principale di manifestazione della volontà popolare. E dunque potrebbe essere una buona idea, ma siamo sicuri che entrambe le parti siano disposte ad accettare quel verdetto?
Per esempio, dal punto di vista della potestà legislativa generale, i due Enti che si contendono la capacità legislativa sono Stato e Regioni, ognuno con le sue esclusività e una parte che invece è concorrente. Nel caso di regime concorrente alcuni limiti alla potestà legislativa regionale sono il diritto comunitario o quello internazionale e quindi ragioni sovranazionali, o altre leggi generali dello Stato che verrebbero messe in discussione da decisioni regionali e così via.
In definitiva, la democrazia si basa sulle decisioni prese a maggioranza. Ora, parte integrante del regime democratico è anche il negoziato e dunque qualsiasi decisione presa è soggetta a modifiche e revisioni durante il tragitto (si considerino per esempio gli emendamenti ai disegni e ai decreti di legge). C'è quindi speranza di attutire la portata di una decisione iniziale ma, in generale, non di bloccarla del tutto.
Ma se uno Stato, dopo un percorso più o meno condiviso con le parti interessate, decide di dare esecuzione ad un'opera di interesse nazionale (come già detto, indipendentemente dal suo grado di utilità), è sua facoltà farla oppure è obbligato ad ascoltare le ragioni di tutti? E se si ascoltano le ragioni di tutti, giusta o sbagliata che sia la decisione iniziale, si arriva mai alla fine di un'opera?
E oltre alla Tav penso alla ricerca di discariche alternative durante la crisi dei rifiuti di Napoli, oppure alle (legittime, in questo caso) opposizioni alla ricerca di siti per centrali nucleari, o alla terza corsia autostradale, alla costruzione di nuove strade: in tutti questi e in altri casi, dove un interesse locale si oppone a un interesse generale, quale dei due deve avere la prevalenza?
Infine, vi lascio con una seconda riflessione di Ainis: una specie di Giuria Popolare con funzioni di Camera Popolare, di portata temporale limitata, che abbia la funzione di decidere su alcune questioni in cui si paventa un conflitto di interesse o vi sono decisioni molto conflittuali.
Ma, ripeto, si sarebbe disposti ad accettare quelle decisioni, una volta prese, o si ricomincerebbe da capo, da una parte a costruire dall'altra a bloccare?
E comunque, se si vuole un parere sul merito, c'è quello di Travaglio. A breve.
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